domenica 13 settembre 2015

Carne da macello_

Frammenti di un racconto_
Un racconto che parla di violenza,
di vita, di una vita violentata_
Piccoli frammenti di una realtà che esiste, celata,
da qualche parte, in ognuno di noi_
 
 
 
[...] Work in progress_
 
 
[ Avrei voluto dare una madre, a quell’insignificante puntino nero dalle lucida corna, avrei voluto dargli un senso, un’umanità, una speranza di salvezza. Invece lo consegnavo nelle mani di una realtà devastante, che lo avrebbe presto tramutato in una vergogna tossica, proprio come suo padre.
Ma anche in quegli attimi; deboli istanti di passaggio, prima di socchiudere definitivamente i miei occhi da bambina spaventata sul mondo, non mi concedevano la tanto attesa serenità.
La vita degradata, violenta e nauseante, come una bottiglia di piscio essiccata al sole, di una squallida puttana dell’est, mi scorreva dinnanzi.
Anni di alcool, lividi e violenze mi scivolavano in gola come una bottiglia di quel liquore invecchiato, che scandiva i ritmi delle mie scopate.
Due occhi appannati, simili a bottoni di una bambola, si perdevano nell’amaro ricordo di quello che fu.
Una vita violata, bramata, fagocitata e rigettata, che ancora non si rassegnava, ancora tentava di fare pulizia in mezzo a tutto quello sporco.
La mia vita faceva aria da tutte le parti. E il ricordo di questa, puzzava terribilmente di morte.
Una vita naufragata in una marea di numeri,5, 24, 2, 48; ma era sempre il 57 a sbarrarmi la giornata.
Di fronte all’uscio di una fredda camera di un motel, vive un cuore, che batte sempre troppo in fretta.
Dita affusolate, secche, cancellano un numero su un foglio di carta.
L’unghia dell’indice sinistro, accuratamente smaltata, porta i segni di una recente rosicchiatura.
Una calda goccia di sudore percorre l’intera guancia, terminando la folle corsa ai piedi del mento.
Petto in fuori, testa alta, occhi fissi.
I lunghi capelli color paglia si sciolgono sulle spalle; ci siamo, manca poco.
La giornata sta per morire sotto il peso dell’ultimo cliente.
Le dita affusolate, nervose ed eleganti, sfiorano leggermente la superficie legnosa della porta, e delineano la sagoma di un debole cuore, che continua a battere troppo forte.
E’ il momento di entrare in scena. Sempre lui, sempre lui, a soffocare la mia anima con quel sorriso bastardo, e due occhi lignei, grandi quanto uno sputo.
Il numero 57.
Quante volte ho osservato il suo sguardo godere del mio corpo?
Sempre lui, nulla di nuovo; un’altra giornata stava per concludersi sotto il peso di un corpo soffocante, il numero 57, l’ultimo numero da sbarrare, l’ultimo numero in cui naufragare, in quella ordinaria routine dal gusto matematico.
La mia immagine, riflessa nello specchio, puzzava di squallore; il volto stanco e tirato, l’ultima ruga d’espressione, il livido volto, scandivano il tempo di giornate tutte uguali, trascorse a sbarrare infiniti numeri, di corpi da dissestare.
Strappandomi via l’ultimo pezzo di stoffa, inizio la mia lunga cavalcata verso l’inferno.
Il tuo pene affonda nella mia cavità più intima con fare prepotente, forte, deciso. Come un’arma letale scava nelle zone più nascoste ed inesplorate del mio essere.
E’ violento, come sempre, è bastardo, come sempre, è affamato di sesso, come sempre.
Vergogna tossica, già lo eri, le prime volte che t’impossessavi di me. Ancora non sapevo.
Affondando i miei artigli nella tua cruda carne, schiaffo il tuo muso perverso, perché così ti piace, e mordo le tue schifose chiappe rugose, come la corteccia di un albero secolare. Con la mano destra zittisco quella lingua biforcuta, bloccando quel vomito d’insulti, che è da sempre lava di un vulcano inarrestabile.
Con l’abilità data dall’esperienza, concludo la mia folle cavalcata affondando in quello sporco, che è il marcio della mia coscienza.
Il tuo pene penzola come uno squallido verme, attaccato al corpo di un invertebrato, svuotato da ogni suo liquido.
Nello specchio, ora, è riflessa una nuova ruga d’espressione, deliziosa ladruncola fa capolino segnando il mio volto, e mi ruba un altro lustro della mia esistenza.
Ancora non sapevo che mi avresti rubato la vita, squallida vergogna tossica, penetrando con prepotenza sotto la gonna della mia quotidianità. Inebriando la mia mente con il sapore del tuo Whisky, che sempre infettava la mia felicità apparente, sbronzandomi del piacere tossico della tua violenza.
Un candido velo impregnato di sangue, occultava il mio pallido volto, nell’attimo prima di abbandonare il calore del mondo terreno, e bruciare nelle fiamme infernali. Nascondeva la vergogna di una vita costellata di eccessi, morte, tradimenti, dolore, ed onesto lavoro.
Non so perché conducessi quella vita, un’esistenza stentata, sacrificata, violentata, schiaffeggiata, vezzeggiata. Non avevo avuto scelta. Ero stata sputata nel mondo come un inutile scarto umano. Una puttana dell’est, destinata a portare odio e amore in una città di cartone, abitata da mille volti di plastica.
Ero il diavolo e Gesù Cristo, la troia e la salvezza, l’ancora e la morte.
Il bianco e il nero si confondevano da sempre, nel luccichio dei miei occhi da bambina, travestita da puttana.
Candide pupille che chiedevano amore ad ogni colpo di morte].
 
[...] Work in Progress_


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