Piccoli frammenti di me, materiali organici, derivati da un'esplosione vulcanica di milioni di anni fa_
Frammenti di una vita vissuta, masticata, bramata, desiderata, sputata e vomitata_
Frammenti di storie che raccontano di vicoli bui, strade affollate, angoli di muri scrostati e dipinti male_
Angoli di vita_
Frammenti di vita_
CARNE DA MACELLO
[...] Frammenti di un racconto_
Un racconto che parla di violenza,
di vita, di una vita violentata_
Work in Progress_
[...]
[Avrei voluto dare una madre, a quell’insignificante puntino nero dalle lucida corna, avrei voluto dargli un senso, un’umanità, una speranza di salvezza. Invece lo consegnavo nelle mani di una realtà devastante, che lo avrebbe presto tramutato in una vergogna tossica, proprio come suo padre.
Ma anche in quegli attimi; deboli istanti di passaggio, prima di socchiudere definitivamente i miei occhi da bambina spaventata sul mondo, non mi concedevano la tanto attesa serenità.
La vita degradata, violenta e nauseante, come una bottiglia di piscio essiccata al sole, di una squallida puttana dell’est, mi scorreva dinnanzi.
Anni di alcool, lividi e violenze mi scivolavano in gola
come una bottiglia di quel liquore invecchiato, che scandiva i ritmi delle mie
scopate.
Due occhi appannati, simili a bottoni di una bambola, si
perdevano nell’amaro ricordo di quello che fu.
Una vita violata, bramata, fagocitata e rigettata, che
ancora non si rassegnava, ancora tentava di fare pulizia in mezzo a tutto
quello sporco.
La mia vita faceva aria da tutte le parti. E il ricordo di
questa, puzzava terribilmente di morte.Una vita naufragata in una marea di numeri,5, 24, 2, 48; ma era sempre il 57 a sbarrarmi la giornata.
Di fronte all’uscio di una fredda camera di un motel, vive un cuore, che batte sempre troppo in fretta.
Dita affusolate, secche, cancellano un numero su un foglio di carta.
L’unghia dell’indice sinistro, accuratamente smaltata, porta i segni di una recente rosicchiatura.
Una calda goccia di sudore percorre l’intera guancia, terminando la folle corsa ai piedi del mento.
Petto in fuori, testa alta, occhi fissi.
I lunghi capelli color paglia si sciolgono sulle spalle; ci siamo, manca poco.
La giornata sta per morire sotto il peso dell’ultimo cliente.
Le dita affusolate, nervose ed eleganti, sfiorano leggermente la superficie legnosa della porta, e delineano la sagoma di un debole cuore, che continua a battere troppo forte.
E’ il momento di entrare in scena. Sempre lui, sempre lui, a soffocare la mia anima con quel sorriso bastardo, e due occhi lignei, grandi quanto uno sputo.
Il numero 57.
Quante volte ho osservato il suo sguardo godere del mio corpo?
Sempre lui, nulla di nuovo; un’altra giornata stava per concludersi sotto il peso di un corpo soffocante, il numero 57, l’ultimo numero da sbarrare, l’ultimo numero in cui naufragare, in quella ordinaria routine dal gusto matematico.
La mia immagine, riflessa nello specchio, puzzava di squallore; il volto stanco e tirato, l’ultima ruga d’espressione, il livido volto, scandivano il tempo di giornate tutte uguali, trascorse a sbarrare infiniti numeri, di corpi da dissestare.
Strappandomi via l’ultimo pezzo di stoffa, inizio la mia lunga cavalcata verso l’inferno.
Il tuo pene affonda nella mia cavità più intima con fare prepotente, forte, deciso. Come un’arma letale scava nelle zone più nascoste ed inesplorate del mio essere.
E’ violento, come sempre, è bastardo, come sempre, è affamato di sesso, come sempre.
Vergogna tossica, già lo eri, le prime volte che t’impossessavi di me. Ancora non sapevo.
Affondando i miei artigli nella tua cruda carne, schiaffo il tuo muso perverso, perché così ti piace, e mordo le tue schifose chiappe rugose, come la corteccia di un albero secolare. Con la mano destra zittisco quella lingua biforcuta, bloccando quel vomito d’insulti, che è da sempre lava di un vulcano inarrestabile.
Con l’abilità data dall’esperienza, concludo la mia folle
cavalcata affondando in quello sporco, che è il marcio della mia coscienza.
Il tuo pene penzola come uno squallido verme, attaccato al
corpo di un invertebrato, svuotato da ogni suo liquido.Nello specchio, ora, è riflessa una nuova ruga d’espressione, deliziosa ladruncola fa capolino segnando il mio volto, e mi ruba un altro lustro della mia esistenza.
Ancora non sapevo che mi avresti rubato la vita, squallida vergogna tossica, penetrando con prepotenza sotto la gonna della mia quotidianità. Inebriando la mia mente con il sapore del tuo Whisky, che sempre infettava la mia felicità apparente, sbronzandomi del piacere tossico della tua violenza.
Un candido velo impregnato di sangue, occultava il mio pallido volto, nell’attimo prima di abbandonare il calore del mondo terreno, e bruciare nelle fiamme infernali. Nascondeva la vergogna di una vita costellata di eccessi, morte, tradimenti, dolore, ed onesto lavoro.
Non so perché conducessi quella vita, un’esistenza stentata, sacrificata, violentata, schiaffeggiata, vezzeggiata. Non avevo avuto scelta. Ero stata sputata nel mondo come un inutile scarto umano. Una puttana dell’est, destinata a portare odio e amore in una città di cartone, abitata da mille volti di plastica.
Ero il diavolo e Gesù Cristo, la troia e la salvezza, l’ancora e la morte.
Il bianco e il nero si confondevano da sempre, nel luccichio dei miei occhi da bambina, travestita da puttana.
Candide pupille che chiedevano amore ad ogni colpo di morte.]
[...]
Work in Progress_
PILLOLE DIMAGRANTI
[...] Frammenti di un racconto_
Un racconto che parla di me, di te, di noi_
Un racconto che parla di cosa ci rende vivi,
umani, fragili e forti.
[...]
[Sapevo che era la fine. Percepivo gli sguardi, pesanti come
macigni, degli ospiti che abitavano i tavolini accanto al mio. Un ammasso
indistinto di bambole di ceramica, tenute insieme da lunghi fili che
permettevano loro piccole, ma violente torsioni. Un cumulo di marionette,
appartenenti ad una giostra più grande, che muoveva i suoi primi passi al di
sopra delle nostre ignare scatole craniche, colme di cozze, alio e sughetto,
cotto al punto giusto, e condito con una spolverata di basilico; ma povere di
cervello.
La giostra della morte, o forse, semplicemente il triste
destino dei peccatori.Sapevo che era la fine.
Volti di plastica, lividi e poco nitidi, scorrevano dinnanzi alla mia retina. Le mie pupille lignee riflettevano immagini sfumate e impallidite di un allegro pranzo della domenica. Occhi stanchi, spenti e poco attenti, simili a bottoni scuri, cuciti maldestramente sul volto di bambole abbandonate; fissavano la mia presenza senza mai osservarla. Oltrepassavano la mia esistenza, come se altro non fossi che un semplice specchio, in cui riflettere la loro finta immagine di plastica.
Stavo morendo dinnanzi agli occhi di tutti, eppure nessuno
mi vedeva, nessuno mi degnava di uno sguardo. Nessuno pareva percepire il mio
dolore. Quel dolore che mi lacerava voracemente le carni.
Le mie mani avevano assunto un aspetto oleaginoso, una
consistenza caratteristica di una sostanza lipidica, unta, viscida, ricca di
sostanze grasse, contenute in forma di microscopiche goccioline nelle cellule
dell’albume, o nei cotiledoni.Ero viscida, lubrica, scivolosa, sdrucciolevole, come un vicolo dopo una pioggia torrenziale.
Ero sciolta, umida e molliccia, quando il calore del mio sedere abbandonava definitivamente l’ultima seggiola della taverna.
L’ombra di una ragazza perfetta, stretta in un paio di jeans
attillatissimi, faceva appello ad un equilibrio instabile ed incerto, mentre
appropinquava il suo fragile corpicino alla cassa della taverna. Fragile ed
incerto anche il suo sguardo vuoto, perso in chissà quale lontano girone
dell’inferno. Profumava di colonia, mista a sughetto di pesce; le dita
insanguinate ricordavano le rovine di una violenta battaglia persa, che non
smetteva di versare liquido sanguigno. Una guerra contro se stessa, una
violenza alimentare, una ferocia ingordigia, oppure semplicemente una lotta
continua contro l’onicofagia.
<<Grazie ed arrivederci>>. Salivo gli scalini
della taverna, riemergevo dalle fiamme di un inferno, per annegare in un altro][...]
PILLOLE DIMAGRANTI
[...] Work in Progress_ Frammenti di un racconto_
[“Lasciate ogni speranza voi che entrate”. Scendo i gradini
dell’osteria, e mi sembra di entrare in un girone dantesco, dove indietro non
si può più tornare. Il brucaliffo mi sbarra il portone alle spalle,
sogghignando, mostrandomi i suoi denti, simili a frammenti di petrolio,
derivati dalla decomposizione di grandi ammassi di materiale organico e
animale. Abbandono ogni speranza, decido di lasciarmi cullare da una fine
atroce quanto dolorosa. Forse sto già salendo in paradiso, o precipitando negli
inferi, o forse il cameriere sta semplicemente elencandomi i piatti del giorno,
ammaliandomi con un sex appeal alimentare. Una tentazione alla quale non posso
resistere.
Terremoto di magnitudo 7.1.Il mio stomaco si apre in uno squarcio abominevole e spaventoso, che nessun miracolo chirurgico potrebbe mai ricucirmi. La fame mi assale, si impossessa di me. Vorrei raggiungere le mie pillole miracolose, devono pur essere nascoste da qualche parte.
Ho bisogno delle mie pillole.
Ho bisogno di cibo.
Ho bisogno delle mie pillole.
Ingredienti: Alga ficus, iodio 0,1% (fucus vesiculosus
tallo); agente di carica: calcio fosfato
bibasico; maltodestrine; amido di mais; antiagglomerante: magneso
sistearato; acido clorogenico.
Bastava un attimo. Ma era già troppo tardi.Prima che il mio sistema nervoso potesse avere il tempo necessario per ordinare al corpo di fuggire a gambe levate, il mio sedere fasciato da quel paio di pantaloni troppo stretti, già si stava addentrando nella foresta della perdizione, costellata da migliaia di tavolini apparecchiati ed infiocchettati. Tutto era avvolto da una nube densa e pesante, simile ad una cappa di fumo che volteggia nell’aria, accompagna ogni tuo sospiro, e si sedimenta sui fianchi ad ogni tuo respiro. Mi appesantivo ad ogni passo. Le calorie s’intrufolavano in me invadendo il mio sistema vitale. Mi avvolgevano la cavità nasale, le labbra, i timpani, i bulbi oculari. Non avevo scampo. Tutto intorno a me parlava di cibo. Le persone che mi sorridevano accanto, ingurgitando il loro pasto come dei maiali, con ingordigia, voracità, senza alcun indugio e interruzione. Temevo potessero ingoiare anche me nella loro furia assasina.
Intanto, occupavo il mio posto in fondo alla sala,
riscaldando l’ultima seggiola della taverna con il calore del mio sedere. Silenziosamente,
come una ballerina di danza classica, avevo sfilato accanto ai commensali,
sfoggiando le mie quattro ossa, come ultimo trofeo di una miserabile esistenza.
Un’esistenza appesa all’ago di una bilancia, trascorsa a
gareggiare una maratona dove tu sei unicamente l’ombra di una bambola perfetta,
che volteggia dall’alto di un paio di Manolo bianche, accompagnata dal vento, e
spazzata via da un soffio di aria fresca.
Un’esistenza trascorsa a volteggiare per la città di
Macerata, accompagnata da continue crisi d’astinenza da pillole dimagranti. Una
dipendenza inconsueta, che ti stravolge la vita inducendoti ad imprese folli.
Ero una cocainomane affetta dalla sindrome del dimagrimento, che sballottola
per le vie della città come una palina di flipper impazzita. Il mondo attorno a
me non poteva vedermi: correvo più veloce del vento, e la mia determinazione scorreva
come acciaio vivo dritto nelle mie vene. Un sottile velo di bava alla bocca
tradiva l’innocenza di una ragazza, che altro non era più di un automa drogato,
travestito da principessa.
Occupavo il mio posto in fondo alla sala, riscaldando l’ultima
seggiola della taverna con il calore del mio sedere.Aspettando la mangiatoria, regnava il silenzio. Il brucaliffo fumava pacifico, appoggiato al poggiolo, accanto alla porta d’ingresso. I commensali terminavano il loro nutrimento in silenzio, ammutiti, quasi come tutti, all’interno della taverna, fossero consci di una terribile catastrofe che avrebbe presto scatenato l’inferno, e scombussolato per sempre le loro inutili esistenze.
Io digrignavo i denti, serravo la mandibola, torcevo nervosamente le mie dita martoriate. Tentavo inutilmente di sviare la mi fragile mente da un terrorismo alimentare, che in pochi minuti avrebbe lacerato le mie giovani carni. Ma era tutto inutile.
Ero una tossicodipendente a pochi minuti dall’iniezione
della tanto attesa dose, dopo settimane di un’astinenza rovinosa. Le pupille si
dilatavano a dismisura, un olezzo di alio misto a sughetto cotto al punto
giusto, proveniva dalla cucina della taverna; avvertivo la sofferenza, e l’odore
delle vivande mi bruciava nel petto.
Il piede sinistro ticchettava nervosamente a terra, il
gommino della Manolo combatteva un’infinita guerra contro un pavimento liscio,
che opponeva all’elegante calzatura una forza di attrito opposta, e un’attrazione
oleosa, data dalla scarsa pulizia della taverna.Olio fritto, sughetto di pomodorini e alio. Il vapore delle pietanze si mescolava agli sbuffi di fumo che ingoiavano voracemente il sigaro del brucaliffo, nel momento stesso in cui si avvicinava pesantemente a me, invadendo la mia presenza con il suo odore stantio, rancido, raffermo, come formaggio andato a male, vino rosso inacidito, e cadavere putrefatto. Le cozze alla diavola troneggiavano dinnanzi a me, sfidandomi nella loro imponenza e pesantezza, consapevoli di essere più potenti di me. Il piatto sorretto dall’artiglio peloso del mio carnefice, sbatteva infine sul tavolo, provocando un rumore sordo e un poco fastidioso, come unghie affilate contro la parete di una lavagna, o forse era solo il mio cuore, che sgusciava fuori dalla regione cardiaca, per pompare voracemente il sangue nelle arterie, fino a scoppiare.
Vorace, ingorda, insaziabile, violenta, distruttiva.
Una passione che mi lacerava dentro, una violenza che mi
stringeva la gola, soffocandomi lentamente nell’aroma di una pietanza piccante.
Allargavo rapidamente le pareti del mio stomaco, nel momento
stesso in cui serravo violentemente le finestre della mia anima.
Non necessitavo di convenevoli, ringraziamenti, finti
sorrisi di chi finge di non capire. Desideravo che il mondo intorno a me
potesse fermarsi in quell’istante. Affogavo l’intera popolazione maceratese in
una lava vulcanica scottante, composta da sugo di pomodoro, alio, un poco di
rosmarino, e una vagonata di veleno. Le mie pupille dilatate lanciavano lampi e
fulmini. Dovevano morire. Il mondo intero doveva morire. Esattamente come stavo
morendo io in quell’istante.
Mi buttai nelle cozze, precipitandomi in quella pericolosa
avventura, che avrebbe di certo lacerato le mie pallide membra. Mi inabissai nella
salsa, affogai le mie livide dita nel sugo. I lamellibranchi venivano forzati
dentro la loro conchiglia con merovingica ferocia, quasi me li inghiottivo
interi. La mia anima si squarciava, vittima di una battaglia interna senza
precedenti; i gusci venivano rigettati sul piatto, esattamente come le mie ossa
erano state maciullate, masticate, e poi sputate.
Come una furia assassina affrontavo il mio acerrimo nemico;
facevo l’amore con un’altra me, quella che da sempre rinnegavo, e affogavo i
miei sensi di colpa nella salsa di pomodoro.][...] Work in Progress_
Dal VangeloSecondoElisa_
Dipendenze_
LE MIE PRIGIONI
[Dopo una lunga, immensa e soffocante latitanza, torna quell'incredibile voglia di scrivere, che mi penetra nel sistema nervoso, fino a fermentare le mie falangi carnose.
L'incredibile voglia di scrivere, di tornare ai tempi moderni, e godere di quel leggero ticchettio provocato dai tasti di tastiera di un pc. Del mio pc.
Un modo come un altro per assaporare il profumo di casa, a pieni polmoni.
DalVangeloSecondoElisa_
[...] Work in progress_
[Attraverso un incrocio trafficato di una grande metropoli, o forse è semplicemente quella vecchia strada sterrata, piena di buche come una groviera, con quell’erbaccia che ancora osa fare capolino lungo i bordi. Una strada inquinata da un vento soffocante, che da sempre mi separa dal calore di casa.
Attraverso una gigantesca striscia di terreno composta da mille corsie, imponente e zebrata, come un rotolo di carta igienica a quattro veli: non si strappa, e non ne si vede mai la fine. La mia maledetta vocina interiore non mi abbandona neanche per un secondo, accompagnandomi nel mio pericoloso slalom tra le auto, sedotte dallo scattare del colore verde del semaforo, come elettroni attratti dal nucleo del proprio atomo.
Incurante delle bestemmie, delle grida soffocate, e del suono impazzito dei clacson, che mi scorrono accanto senza mai sfiorarmi, come quelle goccioline di sudore acido, che mi scaldano la fronte, permetto alla mia siluette deformata di sfilare accanto alle auto; seducendole, ammaliandole, concedendo a quella strada trafficata e asfissiata da troppo stress, il privilegio di respirare il mio profumo.
Un caldo mantello, lungo fin quasi ai piedi, avvolge il mio corpo martoriato, allo stesso modo con cui un bocciolo protegge il seme della sua nascita. Odora di carogna e colora di sporco, ma è una potente arma difensiva che mi scalda, e mi isola dal mondo che mi circonda. Un mondo impallidito da un’anemia universale, a causa della diminuzione improvvisa di emoglobina nelle coronarie terrestri, che nutrono l’intero Pianeta Terra. Uno sporco mantello mi separa dal mondo, ma non impedisce a dei sudici Hugg di taglia 36 di condurre i miei lesti piedini al di fuori di quel luogo trafficato, che investe la natura di emozioni negative, cattiveria, ed egoismo infondato, che si colora di smog e uccide le farfalle con il terribile odore della carne umana.
Un paio di Hugg marroncini, solcano il suolo, trasportando la mia siluette deformata lontana dalla civiltà e da tutto, sola con la mia vocina interiore che mai mi abbandona, e uno zaino da montagna sulle spalle curve, peso inevitabile del tempo, e degna eredità di una prigionia, che sembrava non finire mai.]
_work in progress_
TEMPO DI UCCIDERE
Dai Frammenti di una Sana ed Ordinaria Follia_
Dal lento Decifrare di Impossibili Geroglifici,
su un Papiro Spento, avvolto da una Scrittura che Non Riconosco più Mia_
Il Non Senso riprende a Galoppare dentro di Me_
Non Mi lascia Via di Scampo_
E' forse giunto il Tempo di Uccidere?
[Ho sempre odiato le sale d’aspetto. Specialmente quelle colorate di un giallo sudicio, scrostato, che sa di vecchio.
Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento, ero cosciente del terribile fatto che avrei dovuto ripoggiare le mie delicate natiche, su quelle poltroncine mangiucchiate dalle termiti.
I cuscinetti neri erano invasi da acari di polvere, e i nastrini mi solleticavano il sedere, innervosendomi.
Sentivo l’irritazione gonfiarmi nelle vene.
La porta in fondo alla sala, mostrava ai miei occhi chiari segni di cedimento, ed era stata evidentemente presa di mira da quei deliziosi animaletti, probabilmente ne avevano fatto un banchetto di nozze.
Tale gruviera legnosa interruppe bruscamente i miei pensieri, emettendo uno stridente cigolio, come a ricordarmi che non ero solo. Dall’altra parte di uno spesso vetro si sarebbe presto deciso della mia misera vita.
Si tormentava le mani, rigirando i pollici e, fissandosi attentamente quell’unghia rovinata, si sistemava di continuo la camicetta, almeno di due taglie più grande.
Condividevamo lo stesso destino da pochi minuti, e io già la odiavo.
Odiavo l’inutile tentativo di ricercare una comodità, in quella impersonale prigione giallastra, odiavo ogni suo battito nervoso di ciglia.
“Non ci siamo. Caschi male amica mia. Sei solo una povera malata, con me non attacca”.
Sapevo benissimo che il suo era un inutile tentativo di seduzione. Anche il suo continuo tormento, il sudore che colava dalla fronte, impregnando lentamente la camicetta azzurrina, che le conferiva l’innocenza di un agnellino, all’interno di un branco di lupi.
La chiazza oleosa di sudore, scopriva leggermente un paradiso inesplorato, abitato da due candidi seni.
Gli occhi vitrei mi paralizzavano ad ogni battito di ciglia, quando lentamente poggiavano il loro pesante sguardo su di me.
Trattenevo il respiro, quasi in apnea.
Sapevo che mi stava ispezionando, ma il suo sguardo spento era impossibile da decifrare.
Concentravo la mia attenzione sulle sue braccine di un bianco candido, come il camice che sa di ammorbidente di un medico; e i capelli neri colavano come inchiostro da una boccetta, su quei torrenti blu vivo, trafitti troppo a lungo da siringhe velenose. La chioma corvina scendeva spettinata, quasi a coprire i relitti di una battaglia persa, combattuta su quelle esili braccia.
C’era qualcosa che stonava in quell’anima spettinata di fronte a me.
Forse era tutta colpa di un’aria febbrile, che soffocava una scrostata sala d’aspetto.
Era forse giunto il tempo di uccidere?
UN CIELO COLORATO DI CEMENTO
PASQUA SUL COMÒ
TEMPO DI UCCIDERE
Dai Frammenti di una Sana ed Ordinaria Follia_
Dal lento Decifrare di Impossibili Geroglifici,
su un Papiro Spento, avvolto da una Scrittura che Non Riconosco più Mia_
Il Non Senso riprende a Galoppare dentro di Me_
Non Mi lascia Via di Scampo_
E' forse giunto il Tempo di Uccidere?
[Ho sempre odiato le sale d’aspetto. Specialmente quelle colorate di un giallo sudicio, scrostato, che sa di vecchio.
Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento, ero cosciente del terribile fatto che avrei dovuto ripoggiare le mie delicate natiche, su quelle poltroncine mangiucchiate dalle termiti.
I cuscinetti neri erano invasi da acari di polvere, e i nastrini mi solleticavano il sedere, innervosendomi.
Sentivo l’irritazione gonfiarmi nelle vene.
La porta in fondo alla sala, mostrava ai miei occhi chiari segni di cedimento, ed era stata evidentemente presa di mira da quei deliziosi animaletti, probabilmente ne avevano fatto un banchetto di nozze.
Tale gruviera legnosa interruppe bruscamente i miei pensieri, emettendo uno stridente cigolio, come a ricordarmi che non ero solo. Dall’altra parte di uno spesso vetro si sarebbe presto deciso della mia misera vita.
O dentro, o fuori. Ja oder Nicht. Vivo o morto.
Di fronte a me si era materializzata un’anima spaventata. Portava vecchi calzoni che, risvoltati all’insù, scoprivano pallide caviglie, sottili, come i tubicini di una flebo. All’interno, ribolliva un tiepido sangue.Si tormentava le mani, rigirando i pollici e, fissandosi attentamente quell’unghia rovinata, si sistemava di continuo la camicetta, almeno di due taglie più grande.
Condividevamo lo stesso destino da pochi minuti, e io già la odiavo.
Odiavo l’inutile tentativo di ricercare una comodità, in quella impersonale prigione giallastra, odiavo ogni suo battito nervoso di ciglia.
“Non ci siamo. Caschi male amica mia. Sei solo una povera malata, con me non attacca”.
Sapevo benissimo che il suo era un inutile tentativo di seduzione. Anche il suo continuo tormento, il sudore che colava dalla fronte, impregnando lentamente la camicetta azzurrina, che le conferiva l’innocenza di un agnellino, all’interno di un branco di lupi.
La chiazza oleosa di sudore, scopriva leggermente un paradiso inesplorato, abitato da due candidi seni.
Gli occhi vitrei mi paralizzavano ad ogni battito di ciglia, quando lentamente poggiavano il loro pesante sguardo su di me.
Trattenevo il respiro, quasi in apnea.
Sapevo che mi stava ispezionando, ma il suo sguardo spento era impossibile da decifrare.
Concentravo la mia attenzione sulle sue braccine di un bianco candido, come il camice che sa di ammorbidente di un medico; e i capelli neri colavano come inchiostro da una boccetta, su quei torrenti blu vivo, trafitti troppo a lungo da siringhe velenose. La chioma corvina scendeva spettinata, quasi a coprire i relitti di una battaglia persa, combattuta su quelle esili braccia.
C’era qualcosa che stonava in quell’anima spettinata di fronte a me.
Forse era tutta colpa di un’aria febbrile, che soffocava una scrostata sala d’aspetto.
Era forse giunto il tempo di uccidere?
UN CIELO COLORATO DI CEMENTO
Imparare ad incanalare Un'Energia Vulcanica nella Giusta Direzione_
Colorando i Sentieri della mia Anima, con le Gocce di un Inchiostro Indelebile_
Siamo Davvero Così Sicuri delle Cose di Cui Siamo Certi?
Insinuare Dubbi nelle Certezze,
per Sbattere in Faccia Una Realtà
che perde Acqua da Tutte le Parti_
Work In Progress_
Mi fermo sul più Bello per Concedermi il Tempo di Godermelo_
E perché sono Una Rimanda Piaceri_
Quei 102 passi, che mi separavano dal calore del mio nido.
La routine di un viaggio in metro, dove il tuo fiato raffredda il mio esile collo, singhiozzando “ti amo”.
Mi ami anche quando la tua lingua sfiora leggermente la mia cute, senza penetrarmi mai nel profondo.
Un colpo di vento, provocato dall’arresto della metro, a quell’ultima fermata, che mi separava dal calore di casa. La mia gonna si solleva, avvicinando prepotentemente il mio pube alle tue fauci affamate.
Il mio volto pulito, da ragazza per bene, si squarcia in un doloroso sorriso, nel momento in cui viene colpito e atterrato da un missile, che lacera le mie membra, per fare capolino dalle mie esili labbra ansanti.
Il tuo amore non profuma di me, quando mi penetri con forza.
I tuoi occhi non riflettono i miei, quando singhiozzi “ti amo”, al ritmo di quel tuo spasmo respiratorio, accompagnato normalmente da un flebile suono.
Ultimo arresto della metro. 102 passi mi separano dal calore del mio nido.
Il tuo liquido caldo fluisce nelle mie cavità interne, provocando un leggero brontolio orgasmico, che dalle viscere risale fino alla regione cardiaca. L’intrusione di quella sostanza fluida, disciolta al calore di una violenza, era da sempre il tuo modo di siglare un contratto di appartenenza. La firma di un atto notarile. La chiusura di un rapporto, durato il tempo di uno spasmo respiratorio.
Mi allontano dalla tua anima affamata, strascicando i piedi, stretti in quelle calzature importanti, lungo un cielo colorato di cemento.]
_Dal VangeloSecondoElisa_
_Il TerrorismoPsicologico di UnaMetro_
_Versetto2_
ToBeContinued_
UNA VERITÀ' DAVVERO PESANTE
[Non ti svelerò il finale di una storia, alla quale manca principalmente un inizio.
Si parla di empatia, un sentimento leggero, che ti stringe la gola, e ti accompagna, durante il lungo tragitto sotterraneo, e soffocante di una metro.Quei 102 passi, che mi separavano dal calore del mio nido.
La routine di un viaggio in metro, dove il tuo fiato raffredda il mio esile collo, singhiozzando “ti amo”.
Mi ami anche quando la tua lingua sfiora leggermente la mia cute, senza penetrarmi mai nel profondo.
Un colpo di vento, provocato dall’arresto della metro, a quell’ultima fermata, che mi separava dal calore di casa. La mia gonna si solleva, avvicinando prepotentemente il mio pube alle tue fauci affamate.
Il mio volto pulito, da ragazza per bene, si squarcia in un doloroso sorriso, nel momento in cui viene colpito e atterrato da un missile, che lacera le mie membra, per fare capolino dalle mie esili labbra ansanti.
Il tuo amore non profuma di me, quando mi penetri con forza.
I tuoi occhi non riflettono i miei, quando singhiozzi “ti amo”, al ritmo di quel tuo spasmo respiratorio, accompagnato normalmente da un flebile suono.
Ultimo arresto della metro. 102 passi mi separano dal calore del mio nido.
Il tuo liquido caldo fluisce nelle mie cavità interne, provocando un leggero brontolio orgasmico, che dalle viscere risale fino alla regione cardiaca. L’intrusione di quella sostanza fluida, disciolta al calore di una violenza, era da sempre il tuo modo di siglare un contratto di appartenenza. La firma di un atto notarile. La chiusura di un rapporto, durato il tempo di uno spasmo respiratorio.
Mi allontano dalla tua anima affamata, strascicando i piedi, stretti in quelle calzature importanti, lungo un cielo colorato di cemento.]
_Dal VangeloSecondoElisa_
_Il TerrorismoPsicologico di UnaMetro_
_Versetto2_
ToBeContinued_
Ci sono cose, che l'Essere Umano preferisce non Vedere_
Sono quelle cose che lasciano un retrogusto Amaro, difficile da Mandare Giù_
Cose che Nessuno ci Insegna ad Affrontare,
E che Chiudiamo Semplicemente in Un Cassetto, Nella Nostra infinita Memoria_
Sono Le Cose Che Mi Spingono a Prendere Una Pagina Bianca, E Ad immergermi Dentro_
Sono le Cose che Mi Spingono A Sporcarmi continuamente Del Mio Inchiostro,
Sulla Medesima Pagina Bianca_
Dal Vangelo Secondo Elisa_
Dal Maggio 2014_ Un Flusso Di Coscienza della Leonessa
che Combatte contro I Mulini A Vento_
E Che Ancora, Non ci Pensa Proprio Ad Arrendersi_
Qualcosa di meraviglioso, magico, ancora misterioso, impercettibile all’occhio umano, è accaduto. Si, è successo qualcosa. Qualcosa d’incredibilmente banale, uno sbadiglio violento, alla luce di quel nuovo giorno. Uno schiaffo morale alla tua presunzione, una briciola di catrame, sul tuo pelo immacolato da leonessa.
C’era una volta un corso di formazione. Che strano, mi pare di aver già iniziato una storia in questo modo, con la medesima frase. Eppure, non faceva così.
C’era una volta una formazione. Una formazione che si svolgeva in una stanza, nuda e triste, al di sopra di un piccolo circolo acli, affollato da mille amanti del cicchetto.
Nessuno proferisce parola. Si deglutisce a fatica, assillati da questo silenzio soffocante.
Le pareti sono diventate ghiaccio. Vitree. Leggere ma fredde. Un passaggio inevitabile.
Alzando lentamente lo sguardo, entra inevitabilmente in contatto con le persone che le stanno intorno. Alcune mostrano già a primo impatto un carattere debole, buono, accondiscendente. Classiche persone che Gin si mangia a colazione. Se non fosse che l’incertezza di questa nuova sensazione, di questo nuovo silenzio, carico di azione, le ha chiuso del tutto lo stomaco.
Coraggio Gin, niente panico. Reggi lo sguardo, ostenta sicurezza. Tu ce la puoi fare.
Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, e nasconde abilmente le ferite.
E la battaglia ha inizio. Una battaglia interiore della stessa intensità di quella combattuta dall’Orlando furioso, per conquistare il cuore della sua Angelica. In quella stanza bianca, spoglia, vuota, sono rimaste solo più due persone. Io e lui. Oddio Gin, ti prego, non farlo, ti prego non assumere quel tuo solito sguardo di sfida. Non è una gara. Non devi apparire più forte di nessuno. Non devi apparire più figa di nessuno. Non devi apparire e basta. Quell’uomo non ti sta guardando perché ti vede bella. Quegli occhi di ghiaccio non stanno fissando il tuo scorpioncino, né tanto meno i tuoi rotolini di ciccia. Quell’uomo non sta guardando le tue lunghe ciglia, e neanche i tuoi occhi color miele. Probabilmente non ti sta neanche più fissando, magari neanche l’ha mai fatto, è stato semplicemente frutto della tua fervida immaginazione. Stupida Gin.
“Esalta i tuoi difetti, e trasformali in punti di forza”. Chi è già che diceva sta stronzata?
Bene, da ora in poi sarà un mio punto di forza essere una testa di cazzo, imbranata, pasticciona, casinista, disorganizzata, con la testa tra le nuvole.
Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, ma non riesce più a nascondere le sue ferite.
Sei già stata catturata, spogliata, colta nel fallo. Inutile fingere, inutile tentare di mettere insieme i cocci di un muro che sta crollando miseramente sotto il peso di una verità pesante.
Un muro che mi sta crollando davanti. Mostrandomi nuda per la prima volta.]
L'AMORE INFEDELE
Io Non Scrivo Poesie_
[Non si sa mai dove ci porti la vita. Non si sa mai, chi avrà il privilegio d’incrociare il tuo sguardo impenetrabile, diretto, tagliente, mortale. E’ una sfida continua, che non ammette rivali.
La leonessa si liscia il suo pelo splendente, e nasconde abilmente le ferite.
Spesso capita di pensare a dove ci si trova ora. Ai traguardi raggiunti, sempre e comunque troppo piccoli, troppo insignificanti per renderli degni di nota. Eppure qualcosa si raggiunge sempre, un passo dopo l’altro. E’ un processo inevitabile della vita di ogni essere umano. Ed è un processo bellissimo. La vita stessa, forse, è davvero bellissima.
Questo, strano a dirsi, accade anche a Gin. E si, la vita riserva anche a lei tantissime sorprese, che accoglie ogni giorno con molto entusiasmo, e con qualche piccola, piccolissima, ed insignificante bestemmia.
Voglio pensare che da due settimane a questa parte, la vita mi sia cambiata definitivamente. In meglio. E si, concedetemelo una sacrosanta volta un cambiamento positivo! Qualcosa di meraviglioso, magico, ancora misterioso, impercettibile all’occhio umano, è accaduto. Si, è successo qualcosa. Qualcosa d’incredibilmente banale, uno sbadiglio violento, alla luce di quel nuovo giorno. Uno schiaffo morale alla tua presunzione, una briciola di catrame, sul tuo pelo immacolato da leonessa.
Tutto, e il contrario di tutto. Non è importante sorridere, bonariamente, come una bambolina di ceramica, appena uscita da una vetrinetta. E’ importante issare il muro. Il tuo muro. E tirare fuori le unghie smaltate, da leonessa di classe.
Gin, due settimane fa, ha partecipato ad un corso di formazione. Partiamo da qua.C’era una volta un corso di formazione. Che strano, mi pare di aver già iniziato una storia in questo modo, con la medesima frase. Eppure, non faceva così.
C’era una volta una formazione. Una formazione che si svolgeva in una stanza, nuda e triste, al di sopra di un piccolo circolo acli, affollato da mille amanti del cicchetto.
Venti persone disposte a cerchio, si fissano timidamente negli occhi.
Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, e nasconde abilmente le ferite.Nessuno proferisce parola. Si deglutisce a fatica, assillati da questo silenzio soffocante.
Le pareti sono diventate ghiaccio. Vitree. Leggere ma fredde. Un passaggio inevitabile.
Gin non ha paura, lei non ha paura di niente. Si sistema lentamente la canotta, assicurandosi di non avere nudità scoperte. Il pizzetto cade alla perfezione, scoprendo solo leggermente la coda dello scorpioncino, sul seno sinistro. decide di concentrarsi.
Difficile a farsi. La mente lavora sempre. Troppi pensieri, sbagliati. O forse giusti, chi può dirlo.Alzando lentamente lo sguardo, entra inevitabilmente in contatto con le persone che le stanno intorno. Alcune mostrano già a primo impatto un carattere debole, buono, accondiscendente. Classiche persone che Gin si mangia a colazione. Se non fosse che l’incertezza di questa nuova sensazione, di questo nuovo silenzio, carico di azione, le ha chiuso del tutto lo stomaco.
Altri componenti del cerchio trasmettono timore, paura, incertezza. L’incertezza, è forse il sentimento che probabilmente ci accomuna.
Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, e nasconde abilmente le ferite.
Strano, cinque secondi che ho alzato lo sguardo, e ho già trovato un qualcosa che mi accomuna a questi estranei.
C’è una persona, che abita questo mio cerchio. Una persona che osserva gli altri a testa alta, ostenta sicurezza. Una strana consapevolezza, che gli permette di assumere questa postura; fiera, sicura, decisa. Non è presunzione, non è strafottenza, né tanto meno cattiveria o menefreghismo. C’è qualcosa che va al di la di tutto questo. Oddio lo sto fissando, cazzo. Ha degli occhi bellissimi, azzurri. Profondi. Occhi chirurgici, che mi penetrano all’interno, fino a strizzarmi il cuore. Mi sta guardando. Sta guardando proprio me.
Improvvisamente mi sento nuda, spogliata da ogni mia veste. Non esiste più nessuna canottiera con il pizzetto, nessun pantacollant in grado di farmi un lato b da urlo. Non esiste più nulla. Mi sento come un’immagine riflessa in uno schermo, nell’attimo prima di premere il tasto play. Il sangue si solidifica nelle vene. Il mio viso, si colora improvvisamente di un trucco indelebile, che odora di morte.
Quest’uomo mi sta succhiando l’energia vitale. Sto morendo lentamente sotto i colpi di due occhi di ghiaccio. Occhi avari, golosi, sadici.Coraggio Gin, niente panico. Reggi lo sguardo, ostenta sicurezza. Tu ce la puoi fare.
Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, e nasconde abilmente le ferite.
E la battaglia ha inizio. Una battaglia interiore della stessa intensità di quella combattuta dall’Orlando furioso, per conquistare il cuore della sua Angelica. In quella stanza bianca, spoglia, vuota, sono rimaste solo più due persone. Io e lui. Oddio Gin, ti prego, non farlo, ti prego non assumere quel tuo solito sguardo di sfida. Non è una gara. Non devi apparire più forte di nessuno. Non devi apparire più figa di nessuno. Non devi apparire e basta. Quell’uomo non ti sta guardando perché ti vede bella. Quegli occhi di ghiaccio non stanno fissando il tuo scorpioncino, né tanto meno i tuoi rotolini di ciccia. Quell’uomo non sta guardando le tue lunghe ciglia, e neanche i tuoi occhi color miele. Probabilmente non ti sta neanche più fissando, magari neanche l’ha mai fatto, è stato semplicemente frutto della tua fervida immaginazione. Stupida Gin.
Eppure quegli occhi, inizialmente freddi come una giornata d’inverno, sono diventati del colore del mare, caldi, invitanti. Hanno mosso un meccanismo al mio interno. Gli ingranaggi di una macchina.
Credo possa essere il cuore.
Ok Gin, torna in modalità Orlando furioso. E anche se sei nuda, e aperta come un libro, puoi ancora mantenere un minimo di contegno, una parvenza di dignità, una briciola del tuo gigantesco orgoglio.
Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, e nasconde abilmente le ferite.
Valutiamo le reali soluzioni: volendo puoi provare a spogliarlo pure tu. Che ci vorrà mai? Concentrati.
No, no, Non si può. Assolutamente sbagliato. Spogliarlo con gli occhi. Cioè spogliarlo interiormente. Oh cazzo, Gin, in senso metaforico, mi sembra ovvio!
Che diavolo ti stai immaginando? Resetta. Resetta. Resetta. E’ chiaro che non funziona. Con te non funziona. Hai un cervello decisamente troppo malato. All’ultimo stadio di una malattia mortale. Mortalissima (mi concedo anche il lusso di coniare un nuovo termine).
Piano B: Cara Gin, è tanto difficile ed impossibile l’ipotesi di essere semplicemente te stessa? Ok, non sei un gran che. Ok quest’uomo ha una sicurezza ed una pace interiore da far invidia al povero Gandhi. Che tu, chiaramente, non raggiungerai mai, neanche tra un milione di anni. Ma a che serva fingere ora?“Esalta i tuoi difetti, e trasformali in punti di forza”. Chi è già che diceva sta stronzata?
Bene, da ora in poi sarà un mio punto di forza essere una testa di cazzo, imbranata, pasticciona, casinista, disorganizzata, con la testa tra le nuvole.
Diventerà una cosa positiva non avere prospettive, non avere un vero talento, continuare a sognare, e a sperare che qualcuno mi lanci un segno. Un cazzo di segno che mi indichi una giusta direzione da prendere. Sarà un pregio essere egoista, stupidamente egocentrica, e bisognosa d’Amore.
Quest’uomo, dallo sguardo penetrante capace di leggerti dentro, dalla pace interiore, dalla voce profonda, ha il potere di catturarti, come il leone fa con la gazzella. E tu ti trasformi improvvisamente da cacciatrice a preda. Ancor prima che il cervello mandi l’impulso di scappare, di salvarti, è già troppo tardi.Una leonessa si liscia il suo pelo splendente, ma non riesce più a nascondere le sue ferite.
Sei già stata catturata, spogliata, colta nel fallo. Inutile fingere, inutile tentare di mettere insieme i cocci di un muro che sta crollando miseramente sotto il peso di una verità pesante.
Un muro che mi sta crollando davanti. Mostrandomi nuda per la prima volta.]
L'AMORE INFEDELE
[Volevo lasciare un segno di me.
Volevo lasciare qualcosa di mio, dedicato a François Combe e Kay.
Nel disperato tentativo di rielaborare un lutto.
Il lutto per la fine di un mondo, racchiuso in un solo libro.
Prima che io prenoti un biglietto di solo andata per Manhattan_
Alla ricerca di quella solitudine infinita_
Che non è poi tanto diversa da questa_]
Era sufficiente perdersi in quegli occhi grigi, per accorgersi di quanto tutto fosse terribilmente banale.
La vita era banale, il male, la felicità, l’essere umano, era tutto sorprendentemente banale.
A cosa sarebbe servito, colmare il vuoto con petali di fiori, e frasi d’amore che poco appartenevano al suo fragile cuore? A coprire i segni d’infinite fragranze, curve sensuali, sguardi languidi, che ancora aleggiavano in quell’aria soffocante. Non era necessario camuffare lo squallore di una stanza bianca. Una stanza che portava i segni di un’infinita solitudine, trascorsa a soddisfare esigenze umane, cariche di frustrazione.
Due seni provocanti si abbandonavano totalmente a lui, nell’infinita dolcezza della disperazione. L’ultimo sorso di Whisky ancora doveva fare il suo corso, quando veniva irrimediabilmente travolto da un’altra ondata di alcool, e ancora, un’altra ancora. Golate violente come uno tsunami.
L’ingenuità di un corpo assente, primo di un’anima, e di un qualsiasi altro sentimento umano, accoglieva l’aggressività di due seni tondi, ancora carichi d’amore.
La strada si apriva dinnanzi a loro, come un tappeto rosso in una serata di gala.
Un fetore di Whisky si liberava dalle loro bocche ansanti, affamate d’amore, e di violenza carnale.
Vagavano per i marciapiedi di una città grigia; grigia proprio come il colore delle tue pupille, Kay, preziose come la delusione che le avrebbe abbandonate al buio di quella notte. Avanzavano lentamente, l’uno abbandonato all’altro, reduci da una disastrosa battaglia interna, che ancora doveva concludersi.
Sentiva il calore della disperazione, alitargli sul collo. Due corpi fusi in un’unica solitudine.
Ma lei non era Lei.
Lei non era Key.
E niente poteva rivelarsi più squallido, alla debole luce di una timida luna, del passare da una solitudine, al letto di un’altra.
LA RAGAZZA DALLA SCIARPA VIOLA
Quella sciarpa viola mi stringeva la gola. Mi bloccava il respiro, ma permetteva alla mia fragile anima di mantenere il contatto con l’intimità della mia cellula.
Ero un cane legato alla catena, impotente. Un abbaio solo avrebbe scheggiato i vetri di un castello di cristallo. Una torre d’avorio nella quale risiedevo da sempre, nella quale mi proteggevo, dalle insidie del mondo esterno. Tutto era perfetto, sicuro, protetto, e bellissimo, nella mia grande casa incantata.
Quella sciarpa viola, quella sciarpa maledetta, cingeva il mio collo, i giorni in cui la luce del mondo esterno feriva le mie immacolate pupille di luce nuova. La luce viva, che mi violava fin nel profondo, come l’ago affilato di una siringa, conficcato in un occhio.
La vulnerabilità della mia anima, in quei momenti, era alle stelle.
La fragilità del mio esile corpo, paralizzava i miei arti, impedendomi di fuggire, lontano da quella morsa.
La fragilità dell’animo umano, è un ribosoma che naufraga nel mare di un citoplasma in tempesta, fuoriuscendo dalla sua cellula nativa.
La mia torre d’avorio era una cellula eucariote, strutturata in un solido scheletro interno, funzionale, e protettiva. Elemento indispensabile e fondamentale, per la creazione di un organo ancora più grande e prezioso, quale era il mio castello di cristallo.
Come un ribosoma impotente, incapace di sopravvivere al di fuori della sua cellula, spegnevo l’interruttore della mia anima, e mi preparavo ad una morte lenta e dolorosa, stretta nella morsa di una sciarpa viola.
Con lo sguardo perso nel ricordo della mia torre d’avorio percorrevo i 102 passi, che mi separavano dalla fermata della metro.
L’attesa era estenuante, la sciarpa troppo stretta.
Stretta al punto che il sudore mi bagnava la fronte, provocandomi vergogna.
Tanto stretta, da rendere ogni mio movimento meccanico e disumano.
Quel mostro sotterraneo spalancava le sue grandi fauci, accogliendomi nell’oscurità della metro.
Quella metro che mi comprimeva le costole, come la sciarpa colorava di viola, il mio fragile collo.
La morte distava ancora di un centinaio di passi.
La tua voglia di me, ti si leggeva negli occhi. Lo specchio dell’anima metteva a nudo l’essenza del tuo essere.
Uno sguardo prepotente e violento, mi inchiodava al muro.
_“Dimmi che mi ami. Lo so che mi ami”.
Le tue labbra umide, bagnate di votka, si univano disperatamente alle mie. Il liquido freddo mi penetrava in gola, fagocitava ogni organo vitale, fino a raggiungere le viscere. L’intero mio corpo si ribellava a quell’acido corrosivo, ma le cellule neuronali no, quelle no, si ubriacavano di felicità ad ogni sorso, e ad ogni tuo bacio.
_“Dimmi che mi ami. Lo so che mi ami”.
La bottiglia giaceva ai tuoi piedi, come inutile oggetto che ha esaurito la sua potente droga. La tua lingua esplorava luoghi sconosciuti, cavità interne e profonde del mio essere.
_“Prendimi ora, e mi avrai per sempre”.
Le tue unghie penetravano nella mia debole carne, il mio volto si squarciava in un debole sorriso. L’amore odorava di una sostanza viscida e sporca, che aggrediva le tue mani, ancora strette al mio collo, e scivolava seguendo la dolce linea dei miei seni. Il mio sangue si colorava di terra rossastra, alle prime luci del mattino, e io mi sporcavo di te.
_“Mi fai male, ma dimmi che mi ami. Dimmelo”
Ti muovevi dentro di me, come un assassino in cerca della sua vittima. Il tuo sguardo mi sbatteva al muro, con una forza inaudita, le dita sottili rubavano la mia innocenza, e mordevano la mia fresca carne. Osservavi il mio battito interno, che rallentava ad ogni tuo morso.
Mangiavi la mia vita, scavando al mio interno. Scariche elettriche attraversavano il mio corpo mutilato, privato dell’essenza femminile. Una voragine separava le nostre anime, un buco nero squarciava il mio pube, ed eruttava dolore.
Improvvisamente la consapevolezza mi schiaffeggiò il volto, il mio corpo ardeva di terrore, vergognandosi della nudità della mia anima.
_“Dimmelo adesso che mi ami. Lo so che mi ami. Non lasciarmi”.
Una scossa violenta, squarciava la crosta terrestre. Un sisma di magnitudo 7,9 aggrediva con forza disumana l’essere umano, che crollava miseramente al cospetto della natura.
Un battito di ciglia, ed ero rimasta sola. Nuda dinnanzi alla realtà che, in una crisi di violenta bulimia, lacerava la mia carne, e distruggeva il contorno del mio essere.
Un terremoto di magnitudo 7,9 metteva in ginocchio un intero paese. La morte si allargava a macchia d’olio, disseminando ovunque, panico e distruzione.
L’odore di catastrofe penetrava le mie narici, annebbiandomi la mente. Il sangue caldo che ancora mi avvolgeva il collo, non era più solo.
Tu non c’eri più, e l’Apocalisse s’impossessava di me. La morte mi violentava, sostituendo la tua presenza.
Le mie pupille vitree, si appannavano di pioggia; il mio cuore, rimbombava nel mio cervello, l’eco del suo ultimo battito.
_“Perché non mi aiuti? Come puoi ridurre tutto ad uno stupido sentimentalismo, e pensare che il mio dramma, sia una banale storia di corna?”.
_“Dimmi che mi ami. Lo so che mi ami”.
_“Cosa aspetti ad abbracciami?”.
La morte può attendere.
[...]
CHIEDILO ALLA POLVERE
Io non ti ho conosciuto bene_ No.
Ma hai partecipato ad una Fase fondamentale della mia vita_
Una Fase particolare_
Dove una ragazza incontra una Penna Nera_
Ed entra finalmente in contatto con la Vera Se Stessa_
Riesce a provocare l'Eruzione della sua Anima Vulcanica_
In un Fiume di Lava e Parole_
Scrivo una Marea di Stronzate Criptiche_
Ma Chiedilo Alla Polvere_ Anche lei si Trasforma in Cristallo_
Viaggiare è come perdere se stessi, e ritrovarsi ad ogni fermata di quella caotica metro.
Ci sono viaggi infiniti, scomodi, come il guscio di una lumachina; e compressi, come il tonno dentro la sua casetta di latta.
Tutto è astratto, ovattato, sfumato. Il mondo non mi appare mai nitido come dovrebbe essere, o forse sono io che non osservo mai con le giuste lenti.
Quando sei alla ricerca della tua vera essenza, ogni persona che incroci per la tua via, risulta fondamentale, per la tua crescita personale. Ognuno porta dento di sé un pezzetto di te.
Ogni sguardo incrociato, pesa come un macigno, al di sopra del mio capo. Ogni mio sorriso è un doloroso squarcio su quell’immacolato viso, che porta i segni di una guerra infinita.
Difficile essere se stessi, quando sai di non poterlo essere fino in fondo.
Difficile incidere su un pezzo di carta, un pezzetto di te, se quel pezzetto, è una membrana che ancora avvolge il tuo impavido cuore, ammalato d’amore.
Quella ragazza, poco più grande di te nasconde al suo interno un mondo fantastico. Un mondo che profuma di fantasia e dolcezza, un mondo innocente, protetto dalla retina di un paio di occhi leggeri e soavi. La timidezza infiamma il suo volto e s’impossessa di lei, prepotente come un terremoto. Ho come la sensazione che potrebbe prendere fuoco, da un momento all’altro. L’istinto di protezione nei confronti di quella fragile farfalla, mi cattura, violento, come non mai. Mi schiaffeggia in faccia la realtà, mi fa ribollire il sangue nelle vene, mi scivola, come un pezzo di ghiaccio sciolto al sole, percorrendo le mie cavità interne. La reazione dell’intestino all’intrusione di quel liquido esterno, si manifesta con un leggero brontolio, che dalle viscere risale fino alla regione cardiaca. Le calde lacrime fanno capolino, sfuggendo, con mio immenso orrore, al mio impassibile autocontrollo.
Nessuno mi guarda, eppure sento la pesantezza della realtà, schiacciarmi le esili spalle.
Quella ragazza non ha bisogno di te, è una farfalla meravigliosa, che altro non aspetta che stropicciare le sue ali, e spiccare il volo. Possiede la freschezza di quell’ingenuità, che tu hai perduto troppo presto.
Due insegnanti, due maestri di vita, prendono posto dinnanzi a me. Sollevo il mio debole sguardo da terra, combattendo una battaglia infinita contro la timidezza, ricordo lontano di un’infanzia spenta troppo in fretta, come un fiammifero contro una tempesta di vento.
Leggo ad alta voce le mie insignificanti parole, dall’alto di una platea, composta da mille occhi attenti.
Sguardi che non ho mai incrociato, divorano la mia essenza, parola dopo parola, morso dopo morso. Un semplice esercizio di scrittura, e di coraggio, mi ha ridotto in brandelli, di fronte ad un mondo che mai ho incontrato prima di ora. Sguardi amichevoli, che mi regalano l’abbraccio più caldo che io abbia mai ricevuto.
Difficile rimettere insieme i cocci di una ragazza sgretolata, fatta a pezzi da una bestia interna, che fagocita voracemente gli organi vitali, affamata di vita. Della mia vita.
Concludo la mia lettura dall’alto di quella platea, assaporando fino in fondo le mie pillole di una gloria apparente. Affronto lo sguardo dei miei maestri, due uomini, rigida come una statua di ghiaccio. I miei occhi vuoti, simili a bottoni di una bambola, tentano invano di tradurre le espressioni in emozioni; e intanto una nuvola di vapore, esala dalla mia bocca ansante, nell’aria appannata della sala.
Non conosco quei due uomini. La loro soavità e freschezza non mi appartiene; i loro sorrisi, le loro parole, mi colpiscono, e penetrano dentro una ferita profonda, che non smette più di sanguinare.
Le loro pupille riflettono una me stessa che non riconosco. Una donna consapevole delle sue fragilità, e dei suoi segreti nascosti. Un’anima vulcanica, che non riesce più a contenere la sua lava.
E’ vero, non ti conoscevo, non ti ho mai conosciuto davvero. Ricordo a tua serenità, la tua voglia di vivere, i tuoi cornetti Algida.
Ricordo il modo in cui ti godevi la vita, in cui riuscivi a trasmettere quell’amore per il sapere, attraverso una scarica elettrica, che percorreva la mia spina dorsale.
Si chiama forse carisma? Passione? Amore per la vita?
Non lo so. E’ vero, io non ti ho conosciuto bene.
So solo che avevo perso me stessa, e tu, voi, mi avete aperto un mondo. Un mondo bellissimo, costellato da sincerità ed emozioni, da parole, pensieri, immagini, impresse sulla carta, come colorate metafore dalle ali leggere.
Le mie esili dita picchiettano i tasti di un’immobile tastiera. La schermata si prende gioco di me, e si appanna ad ogni parola. La frustrazione prende il sopravvento, e mi sbatte in volto l’impotenza della mia anima, di fronte alla fragilità della vita.
Dove tu sia ora, difficile non chiederselo.
Io lo domando alla polvere; perché anche lei, nel ciclo della sua vita, si trasforma in cristallo.
VITTIMA PREDILETTA
_Scrivo E Basta_
[Le mie pupille si riflettevano nel caloroso inferno delle tue.
Le mie deboli dita si aggrappavano disperate alle tue crudeli fauci.
Mi stringevi la mano, e mi sussurravi “ti amo”.
L’ingenuità era vittima prediletta,
di un battaglia persa in partenza.
Antiche rovine di una guerra deleteria.
Una lotta continua, contro una terra che non mi appartiene,
contro immensi vuoti, che bucano la mia essenza,
contro quel campo, che da tempo ospita la mia anima.
E’ l’amore di una debole rosa,
che stanca riposa
ai piedi di una tomba.
La lapide sbiadita sorride alla luna.
E’ solo un’altra vittima della crudeltà umana.]
PASQUA SUL COMÒ
Pasqua E'...Una Favola vecchia come il mondo_
Dove un Lupo Mangia una Bambina.
E Vomita Sui Pantaloni Della Nonna_
Una Noia Infinita_
Scandita Dal Regolare Singhiozzo_
Di Un Orologio Sul Comò_
CENERENTOLA IN METRÒ
Viaggiare è come perdere se stessi, e scendere in tutte le stazioni della metro, per ritrovarsi.
Quella era la mia strada verso casa. E ogni giorno mi regalava un’emozione diversa. Ogni giorno perdevo me stessa, e mi rispecchiavo, la sera, negli occhi stanchi di chi mi sedeva di fronte.
Ragazze indiane singhiozzano per i vagoni di questo treno sotterraneo. Incrociano i miei occhi. Ma è un lampo, non ho tempo di formulare un pensiero, che già sono altrove.
Fermo una donna sovraccarica di spazzatura da vendere, un bambino le scodinzola dietro, si nutre della polvere, e del sudore umano. Mi aggrappo al suo braccio, “le cedo il posto se vuole signora”, uno sguardo inorridito accompagna uno sfiato al sapore di limoncello. Mi alita in faccia, e io mi ubriaco di felicità.
L’ingenuità, negli ultimi chilometri che mi separano da casa, regna sovrana.
Un ragazzo urla a gran voce il mio nome, senza fare rumore, senza emettere un suono. Il suo sguardo mi solleva il mento attirandolo su di se, come una calamita.
Ha stile il ragazzo, è uno di quelli che viaggiano con la mente. Suona una batteria immaginaria, e tiene il tempo picchiettando il piede a terra. La scarpetta di cristallo smuove un poco la polvere, facendola danzare.
Ho visto bambini rovistare nella spazzatura, e cibarsi di resti animali.
Ho visto mamme riposare accasciate ai margini della provinciale, coprendosi con i giornali, buttati a terra dalla gente.
Ho visto figli aggrapparsi ai capelli di queste madri, e sorridere al vento.
L’ingenuità regna sovrana, nell’ultimo tratto di strada, che mi separa da casa.
Io non ho mai desiderato di lanciare delle monetine a quella donna. Volevo solo acquistare una pagnotta, e fare a metà con lei, e suo figlio.
Delle volte succede che, l’ingenuità regna sovrana, ma basta poco, per colmare un vuoto, gigantesco quanto una voragine, e tappare uno di quei maledetti buchi interni, che tanto mi tormentano.
Un altro ragazzo è volato via danzando. Rapido, come un soffio di fiato al sapore di limoncello, che mi ubriaca di felicità, e mi abbandona per la via, ferma ad aspettare, a bocca asciutta.
Ad aspettare che qualcuno sfiori delicatamente il mio piede, per infilarmi quella maledetta scarpetta di cristallo.
L’ingenuità regna sovrana, nell’ultimo tratto di strada, che mi separa da casa.
Trascorro i miei ultimi istanti di vita, accanto ad un individuo interessante. I suoi occhi pesano come sassi nella mia debole scollatura. I due ciuffetti bianchi mi salutano, chinandosi ad ogni stop. Il naso gocciola lacrime dorate, che scivolano lentamente sulle avide labbra, come acqua nel deserto. L’indice della mano sinistra riposa all’interno di una narice, che lo ripara dalla crudeltà del mondo esterno. A giudicare dai panni indossati dagli altri componenti della mano sinistra, è chiaramente deducibile che anche le altre dita abbiano provato l’ebbrezza di quella penetrazione.
Una Cenerentola, non ha sempre un principe a portata di mano, pronta a salvarla, e a portarla in un castello.
Spesso il castello se lo crea da sola, e, altrettante volte, deve anche distruggerselo.
Sollevo le mie stanche natiche dal sedile della metro. La polvere mi danza accanto, persone che non individuo, mi si accalcano addosso; una ventata al sapore di limoncello, inebria per un secondo la mia mente.
Poggio una salvietta profumata sul ginocchio dell’individuo interessante. Immediatamente ritira gli occhi dalla mia scollatura, abbracciandosi rapidamente la gamba. Gli sorrido cosciente di aver violato, con la mia solita irriverenza, la sua fantasia perversa.
Una Cenerentola, al giorno d’oggi, deve saper affrontare la realtà.
Deve saper sopportare le tenebre di un treno sotterraneo e perverso, per ritrovare le eccitanti luci della città; che sono sempre lì ad aspettarmi, e mi illuminano il viso, lasciandomi alle spalle l’oscurità di una metro.
Come la polvere, saltello a passi di danza, percorrendo quell’ultimo pezzo di strada, che mi separa dal calore di casa.
LA PETIT CHAPERON ROUGE _ WORK IN PROGRESS
[Questa è una storia che parla di vita_
Una vita Vissuta, Amata, Masticata, Sputata, Bramata, Giocata_
Ma E' Comunque Vita_ E La Vita E' Bellissima Da Qui]
...WorkInProgress... [...]
[E’ una storia vecchia come il mondo.
Era il tempo della discesa in campo del nostro Silvio Berlusconi, noto anche come il grande Cavaliere.
Berlusconi trasmetteva salvezza, agli occhi di ogni cittadino, Presidente del consiglio, e indispensabile, come la saliva che ti si ferma in gola, al momento di deglutire.
L’Italia entrava, in punta dei piedi, in un gioco pericoloso, costellato da Nazioni che gareggiano l’una contro l’altra, in un mercato gigantesco ed invisibile.
Un mercato che assume le sembianze di una donna bellissima ed irraggiungibile, ma ha il sapore amaro della guerra.
Un mercato che ti spinge in alto, fino a toccare le stelle, per poi sotterrarti nello sterco dell’umanità.
Il nostro Stato faceva l’eco agli Stati Uniti d’America, come una fotocopia sbiadita, e a tratti illeggibile. Inutile foglio respinto da una fotocopiatrice senza inchiostro.
Un uomo brizzolato, padre di famiglia, dall’aria gentile, e dall’aspetto caldo e accogliente, colorava una stradina di periferia, abitata principalmente da spazzatura e da episodi di cruda violenza. Passeggiava lentamente, ogni giorno, macchiando quel quartiere malfamato di gioia e solidarietà. Sporcava il terreno arido e secco, con un mazzo di tulipani rossi, colore che adornava spesso la bionda chioma, della figlia Roxane.
Era un giornata umida, avvolta in un caldo appiccicoso di inizio maggio, che ti succhiava via le forze. L’orologio singhiozzava i secondi, l’aria ti si stringeva la gola, bloccandoti il respiro.
La vecchia strada di periferia non si colorava più di tulipani, non profumava di freschezza. Quell’uomo brizzolato, capace di far resuscitare una primula nel deserto, si era improvvisamente trasformato in un padre di mezz’età, con qualche capello bianco di troppo, e le spalle ricurve.
Percorreva quella strada famigliare chino su se stesso, come per abbracciarsi. Ad ogni passo una lampione si spegneva, nella desolazione di un vuoto infinito; e quei tulipani, che non avrebbero adornato la chioma di sua figlia, chinavano mestamente il capo.
Un uomo, come tanti, saliva al potere, acquistando la prestigiosa carica di Presidente del Consiglio.
Un altro uomo, come tanti altri, perdeva il lavoro, e arricchiva la sua anima di un pesante vuoto; una macchia di fumo su una parete di un bianco immacolato.
Il consumismo si celava alle spalle di una solida politica liberale. Il cittadino aveva la totale libertà di distruggersi con le proprie mani, di fagocitarsi con i propri denti, ed affondare miseramente, in un mare di sterco umano, mascherato da fortezza.
La vergogna, l’odore acido del fallimento aleggiava nell’aria.
Un fiume di sangue e membra umane, facevano da contorno ad una grande nazione, solido ponte, anello di congiunzione tra due superpotenze mondiali: l’America del dollaro, e la Russia della Polka.
Il consumismo diveniva il pane quotidiano sulla tavola di ogni italiano, e bersaglio maggiore del mondo cattolico e progressista.
Si accusano gli affamati di dollari, di peccare di egoismo, e di ricercare ossessivamente la propria felicità.
Eppure il leader Silvio Berlusconi pareva la persona più adatta a mettersi alla guida di tali ideali, perché i principi liberali e liberisti, prima ancora di propugnarli, lui stesso li incarnava. Lui era il profitto, il capitalismo, il mercato libero, era la nostra televisione. Ah, la televisione, strumento del demonio! Trasmetteva ciò che da sempre si nasconde sotto pesanti mantelli di pudore: la nudità dell’essere umano.
Ma cosa sarà poi questo famigerato consumismo? Perché denuda gli animi, e dissemina così tanto terrore?
L’uomo brizzolato si colorava le stanche scarpe di polvere, percorrendo quell’arida strada di periferia, che rifletteva i raggi solari, emanando il calore della terra. Quel calore che alimentava la fiamma del suo inferno interiore.
L’uomo brizzolato calpestava il cemento rovente di un classico ponte, anello di congiunzione tra due superpotenze mondiali, e punto d’incontro di teppistelli a ladruncoli.
Assaporava lentamente la delusione che avrebbe presto colorato gli innocenti occhi della sua bambina, e accompagnato il disprezzo di sua moglie.
Un meraviglioso mondo, punteggiato di finti sorrisi e magnanimi gesti, accoglieva il suo freddo corpo, e inghiottiva la morte della sua anima brizzolata, come un caldo terreno fagocita un cadavere sotterrato.
Questo mondo veniva nominato “la società delle maschere”.
Il consumismo, era una valanga di critiche e aspre polemiche, che sgorgava come fiato sprecato, dalle labbra dei cattolici e progressisti.
Il consumista era quel dannato demone, dalla fame insaziabile, che in seguito ad aver soddisfatto i bisogni primari, iniziava la folle corsa verso il superfluo.
Il consumista assumeva un ruolo estremamente meritorio, in quel mondo affollato di maschere, di difensore di un diritto fondamentale dell’uomo, il diritto di perseguire il valore più soggettivo che esista, la propria felicità personale.
Quale sarà dunque, il segreto della vera felicità?
Un cuore stanco, affannato, sovraccaricato di troppe preoccupazioni e dolori, sbatteva violentemente una porta alle sue spalle. Ultima manifestazione di una giovane forza, che aveva lasciato il posto ad una povera vecchiaia. Una vecchiaia che come un vento gelido, solleticava il capello brizzolato, e come un’aria pesante addensata di velluto, gli stringeva la gola, soffocando il respiro.
Il padre di una dolce bambina, dai capelli colorati di tulipano, si domandava incessantemente il segreto della tanto ambita felicità personale. La mente si affollava di mille interrogativi, e l’affetto di quell’amorevole bambina sembrava non bastare più.
Nulla poteva più salvare un’anima vuota, bruciata, e vomitata. I cui resti si allargavano in un finto sorriso, rivolto ad una bambina. Una bambina che non si colorava più di tulipani, ma avvolgeva il suo esile corpo in un rosso mantello.
Era il tempo della discesa in campo di un uomo senza scrupoli, Presidente del governo italiano.
Era il tempo della perdita dell’innocenza di un’esile fanciulla, che non si colorava più di rossi tulipani, ma vestiva il suo corpo di un rosso mantello.
Il mantello della vergogna.
Un volto nuovo colorava le pagine di mille favolieri.
[…]
IL TIFONE LEGGENDARIO
_Perché Le Menti Più Malefiche
Appartengono Ai Cervelli Coltivati_
Feriamoci Di Intelligenza
[Boarding Pass 1915 GO5 18L
Direzione…
Dacca_ Nairobi_ Brazzaville_ Hanoi_ Bujumbura_ Abuja.
Difficile trovare la giusta destinazione, quando ancora si sta cercando la propria identità.
La mente umana è un continente inesplorato, una ventata divina che rinfresca le anime, solletica gli ormoni, induce in tentazioni. Un po’ come la primavera.
La mente umana è un leggendario tifone giapponese che salvò l’intero paese dall’invasione mongola; ma tolse la vita a milioni di persone.
E’ una ballerina che volteggia leggera, colora, poi cancella, crea e poi distrugge.
E’ un’esplosione d’infinito che sta alla base dell’universo.
Un’esplosione d’infinito che sfiora le ali dell’eterno, per poi raggiungere il calore dell’inferno.
La mente umana è la donna più seducente del mondo.
La malvagità, della mente umana, è una costellazione d’incomprensione, incredulità, isolamento, sofferenza.
Satelliti invisibili che ci ruotano attorno da milioni di anni.]
LA SOCIETÀ' DEGLI SPECCHI
Direzione…
Dacca_ Nairobi_ Brazzaville_ Hanoi_ Bujumbura_ Abuja.
Un precipizio che ha le sembianze del diavolo, ma le voci di mille ragazze.
Un precipizio che si nutre di sesso, e di preghiere disperate.
Un precipizio che si accende al calare delle tenebre.
La debole luce di una candela illumina la via, e brucia l’innocenza.
Dove l’intelligenza è misurata in chilogrammi. E la vita viene stabilita da un numero su una bilancia.
Ma io ho vinto al superenalotto, a Amleto mi fa un baffo.
E’ ora di imbarcarsi.
LA SOCIETÀ' DEGLI SPECCHI
[…]
Boarding Pass 1915 GO5 18LDirezione…
Dacca_ Nairobi_ Brazzaville_ Hanoi_ Bujumbura_ Abuja.
Difficile trovare la giusta destinazione, quando ancora si sta cercando la propria identità.
Se avessi vissuto una vita senza specchi, m’imbarcherei per Abuja, ridendo e scherzando a braccetto con l’illusione, protagonista indiscussa in un film già visto. Una pellicola cinematografica vecchia come il mondo, affollata da una miriade di ragazze madri; giovanissime, bellissime, determinatissime.
Parteciperei ad una folle corsa verso il precipizio.
Un precipizio che odora di sesso ma si colora di morte.Un precipizio che ha le sembianze del diavolo, ma le voci di mille ragazze.
Un precipizio che si nutre di sesso, e di preghiere disperate.
Un precipizio che si accende al calare delle tenebre.
La debole luce di una candela illumina la via, e brucia l’innocenza.
Ma sono nata nella società degli specchi, dove non esistono i diavoli e neanche gli innocenti.
Dove l’aria profuma di cemento fresco.Dove l’intelligenza è misurata in chilogrammi. E la vita viene stabilita da un numero su una bilancia.
La mia vita con gli specchi ha determinato la mia intera esistenza. Sono cresciuta ammirando il mio pallore riflesso su un muro di vetro, che urlava a gran voce la mia appartenenza ad un gruppo.
Un gruppo potente, ma altrettanto debole; un gruppo di persone che possiedono soldi, e armi a volontà. Eppure non sanno difendersi. E spesso, piangono soli con se stessi.
I visi pallidi sono un’etnia che ama colorarsi di grigio, ostentando l’originalità.
Si armano di finti sorrisi, di muscoli scoppiettanti come un sacchetto di pop corn, e di magliette aderenti che soffrono visibilmente le pene dell’inferno; nell’estremo tentativo di evitare l’esplosione universale in un mare di… Vuoto.
La mia vita con gli specchi mi ha permesso di vedere la mia immagine riflessa, su un muro di vetro. Ma non mi ha indicato la giusta strada per trovare la vera me stessa.
La più bella del reame.
Perché la più bella del reame non è facile da scovare; fugge, si nasconde, si cela dietro ad un mondo affollato di mille riflessi, e poche realtà.
Un mondo gonfiato, come un piccolo palloncino rosso; che si rinsecchisce sotto il peso della nullità, e muore, come un tossico in astinenza di aria pulita.Ma io ho vinto al superenalotto, a Amleto mi fa un baffo.
Le mie gambe avanzano lente, su quel pavimento scivoloso. Le ballerine bianche si colorano di polvere. Gli occhi si accendono di una luce nuova, riflettendo la Luna.
Una voce metallica mi provoca un brivido intercostale, solleticandomi un poco il mio organo pulsante.
Invoca il mio nome.E’ ora di imbarcarsi.
LE GOCCE DELLA SPERANZA
Perché Io Volevo Nascere Bionda E Stupida_
E Volevo Anche Un Gatto Nero_
Una cosa sola sapevo con certezza: io non avrei varcato quella soglia senza le mie gocce. Non potrei mai e poi mai partire senza.
I grandi pilastri esteri si stavano impossessando della mia anima, marciavano a gran passo, soffocando ogni opposizione con una violenza inaudita.
Una guerra fredda logorava i miei organi interni, un ricorso agli armamenti continuo, sconquassava il mio flusso sanguigno, privandomi di ogni forza.
Killer spietati invadevano il mio cervello, senza incontrare resistenza.
Uomini della morte, penetravano nella mia mente, armati fino ai denti.
Gli artefici del massacro ledevano le pareti del mio essere, e ferivano la mia cute.
Unghie affamate di membra umane, si nutrivano della mia carne, spargendo ovunque dolore e sofferenza.
La morte si riversava all’interno di me in una velocità spaventosa, e, come una macchia d’olio su una tovaglia, mi accerchiava. La mia anima s’impregnava di una sostanza ripugnante e viscida. Come una perfetta spugna, si saturava di morte.
Non posso prendere il volo senza le mie gocce.
Non muoverò un passo fino a quando non avrò trovato quel boccettino di acqua miracolosa.
Gli arti del mio corpo non rispondono più ai comandi. Le mie mani dichiarano la loro indipendenza, e iniziano a frugare nella borsa senza che io me ne accorga. Affamate e avide, rovistano in ogni tasca, lasciando alle loro spalle dolore e sofferenza. Unghie spezzate cadono a terra; un ammasso di ossa e pelle morta naviga in una borsa alla ricerca di una via d’uscita.
Il mio essere sta al mondo come un tossico in crisi d’astinenza, al tempo del proibizionismo; la lingua si muove lesta, dalla mia bocca escono fiumi di parole, un flusso continuo. Contemporaneamente la mia mente impazza, nella direzione opposta.
Un regime totalitario, autarchico, spietato, aveva preso il sopravvento all’interno di me, spodestando la mia giovane anima, attraverso un colpo di stato.
Il potente esalta la sua ferocia e grida vittoria, il vinto continua a combattere in silenzio, senza mia fermarsi, ricomponendo i cocci di un cuore spezzato.
Siringhe colorate di sangue, che odorano di cadavere. Sorrisi spenti. Calore umano arso vivo.
Nulla sopravvive alla malvagità umana.
Le mie gocce, dove sono le mie gocce?
All’interno di me, tutto tace in un silenzio assordante. La disperazione s’intrufola di soppiatto nelle case sfollate. Il pianto allaga gli occhi dei superstiti.
Un asfalto, saturo di sangue umano, si specchia in un cielo colorato di cemento.
Un piccolo stelo d’erba sopravvive alla desolazione della morte. Solleva il capo da terra, respira a cuore aperto, e disseta la sua anima con tre gocce di speranza.
Tre gocce di speranza.
Quelle gocce che le mie mani avide avevano a lungo cercato, all’interno della mia borsa.
Quelle gocce che erano sempre state lì, immobili, ad aspettarmi.
Come un filo d’erba sopravvissuto al massacro, distacco faticosamente le mie natiche dal freddo pavimento. Allargo il mio volto provato in un grande sorriso; un sorriso rivolto a quel mondo che mi circonda, e che da sempre mi appartiene.
Uno, due, tre. Sento il liquido scivolare nella mia gola, attraversare l’intero corpo, fino a riempire i miei polmoni di un’aria leggera e nuova. Di un’aria viva.
E’ sufficiente la giusta dose di speranza.
Bastano tre gocce del mio elisir, e la mia essenza di essere umano fragile, ma mai debole, è pronta a partire per un nuovo viaggio.
Boarding pass 1915 GO5 18L. In direzione di…
[…]
IL VOLO_L'INDIPENDENZA DA UNA TERRA CHE NON È PIÙ MIA
Le corde vocali fremevano nella mia gola, la voce mi frizzava dentro, il sangue scorreva lesto, trasmettendo calore in tutto il corpo, fino a rimbombarmi nel cervello. L’intero sistema nervoso era in subbuglio. Un’esplosione gigantesca avveniva internamente, provocando tutt’intorno morti e feriti, dolore e sofferenza, sangue e carne umana smembrata.
Muscoli troppo pompati soffrivano abbrustoliti dal calore di troppe lampade.
I miei piedi, ancora strisciavano stanchi, su quel pavimento scivoloso.
Le mie ballerine bianche, ancora si coloravano di polvere.
I miei occhi s’impregnavano di lacrime.
L’ora X era scoccata.
Dovevo prendere il volo.
IL VOLO_L'INDIPENDENZA DA UNA TERRA CHE NON È PIÙ MIA
I pantacollant neri sono comodissimi, e adatti ad ogni situazione. Certamente si abbinano magnificamente ad un prezioso tanga sberluccicante, che è ovvio, non può mancare; e oltretutto non permette quel fastidioso effetto “da mutanda”, antiestetico disegnino, su quel mio tondo sederino.
Ma qualche volta, forse, farei meglio a pensare alla praticità, immolando il sensuale, a favore del quieto vivere.
L’orologio a muro scandiva lento lo scorrere di un tempo infinito, che pareva non passare mai. La lancetta segnava il secondo con un fare rude e dispettoso, il ticchettio mi entrava violento nella testa, fino a perforarmi il cervello.
I miei piedi strisciavano stanchi su quel pavimento scivoloso.
Le mie ballerine bianche si coloravano di polvere ad ogni passo.
l mio cervello si annebbiava ogni secondo di più.
Sentivo gli occhi dei passeggeri incollati su di me; mi stavano sbavando sul cappotto, mi urlavano in testa parole incomprensibili. I bambini indiani emanavano uno sgradevole odore di fritto, e, giocando tra di loro, mi lanciavano continuamente la palla addosso.
Ero impalata in un silenzio troppo sporco e rumoroso.Le corde vocali fremevano nella mia gola, la voce mi frizzava dentro, il sangue scorreva lesto, trasmettendo calore in tutto il corpo, fino a rimbombarmi nel cervello. L’intero sistema nervoso era in subbuglio. Un’esplosione gigantesca avveniva internamente, provocando tutt’intorno morti e feriti, dolore e sofferenza, sangue e carne umana smembrata.
I passeggeri di quell’aereo, che ancora dovevo prendere, mi masticavano lentamente, come un filetto di tacchino ben cotto, gettando accuratamente le mie ossa nell’apposito cestino dell’umido, unito a gualche gocciolina di saliva. Perché rispettare la raccolta differenziata è d’obbligo, dobbiamo salvare il pianeta, e fagocitare un’anima alla disperata ricerca della sua identità, un’ordinaria routine.
Le ombre dei miei fantasmi mi scorrevano accanto come un film senza fine.
Un’infinita pellicola della mia vita mi inseguiva, mi perseguitava, mi rincorreva, impedendomi di unire quei due neuroni, e formulare un pensiero sensato.
Davanti a me, un omone gigantesco mi alitava in faccia, chiedendomi gentilmente di esibire il passaporto.
Una maglietta bianca era sul punto di esplodere sotto il peso di muscoli troppo pompati.Muscoli troppo pompati soffrivano abbrustoliti dal calore di troppe lampade.
Come una fatina dalle ali fatate, sognavo di volare al di sopra di quel palloncino troppo abbronzato, per dirigermi lontano. Lontano da tutto, lontano da questa terra che mi avvolgeva troppo stretta, bloccandomi il respiro. La muscolatura dell’omone gigantesco invocava a gran voce la libertà, chiusa nella morsa di una maglietta troppo stretta; allo stesso modo, io urlavo con tutta la voce che possedevo in corpo, la mia indipendenza, nei confronti di una terra che non sentivo più mia.
Ma la realtà mi schiaffeggiava beffarda, riportandomi pesantemente a terra.I miei piedi, ancora strisciavano stanchi, su quel pavimento scivoloso.
Le mie ballerine bianche, ancora si coloravano di polvere.
I miei occhi s’impregnavano di lacrime.
L’ora X era scoccata.
Dovevo prendere il volo.
CHE PAURA LA FELICITÀ
La Paura è una museruola d’acciaio, legata intorno ad un muso di crema.
La Paura è un nastro adesivo che imbavaglia la verità.
La Paura è un occhio che non versa lacrime calde, ma sangue.
La Paura è un cuscino di porcellana, come morbido guanciale.
La Paura è una testa nascosta sotto un cumulo di terra.
La Paura è un vaso di Pandora che si rompe in mille pezzi.
La Paura è una testa rivolta all’indietro.
La Paura è un taglio di Fontana al posto di un pene.
La Paura è un gelato di pancreas e intestino con panna.
La Paura è una fascetta da elettricista, stretta intorno al collo, come morbida sciarpa.
La Paura è una vita trascorsa in un silenzio cupo e assordante.
La Paura è una scarpetta di cristallo calzata da un cuore di pietra.
La Paura è una vita non vissuta.
La Paura è una vita senza la mia arte.
La Paura è una vita senza la vera me stessa.
La Paura è una fame d’insoddisfazione che ti lacera dentro. Per non lasciarti mai.
LO SQUALLIDO VELENO
C’era una volta un uomo barbuto, e non dal gradevole aspetto, di nome Arthur Schopenhauer.
Costui portava radi capelli biancastri tutti spettinati, e osservava il mondo con la sua lente d’ingrandimento, da grande pensatore, digrignando il volto stanco, appassito ed incattivito, dal peso di tutti i suoi anni.
Tale vecchio saggio vegliava sul mondo, studiando come un antropologo l’evoluzione della specie umana, e il suo specifico comportamento all’interno della società. Molti prima di lui l’avevano fatto, e molti ancora l’avrebbero fatto e ancora lo faranno; fare il filosofo era un ottima soluzione per lavorare, senza dover necessariamente lavorare.
Arthur Shopenhauer affermò, dopo anni di incessanti riflessioni, che la volontà dell’uomo è irrazionale; per tanto ciò che noi consideriamo ordine e armonia, alla luce di un nuovo giorno, altro non è che pura illusione.
L’ordine della società civile e politica, altro non è che il fragile rivestimento di una moltitudine di pulsioni ed egoismi. Un debole telo colorato, che impedisce alla mente comune di giungere fino alla vera conoscenza.
La storia, che sembra ripetersi incessantemente, altro non è che una sequela di irrazionalità e follia.
Noi uomini comuni, trascorriamo la nostra umile esistenza a giustificare, nell’estremo tentativo di conferire una parvenza logica ai ciechi impulsi, e agli sfrenati egoismi dell’uomo.
Non vorrei già mettere i bastoni tra le ruote al grande pensatore, ma oserei aggiungere il termine “condannare”, nelle attività privilegiate dell’essere umano. Perché ciò che non viene immediatamente compreso, viene immediatamente condannato.
Una piccola percentuale di onestà rovescerebbe la vita dell’uomo verso una drammatica tensione. E’ sufficiente scoprire che il sentimento di soddisfazione non può avere una posa durativa.
La volontà, in quanto desiderio, è qualcosa che ci sfugge perennemente dalle dita, è una montagna che ancora dobbiamo scalare. E’ per tanto privazione, dolore, sofferenza.
Detto ciò possiamo dedurre che non appena raggiungiamo la vetta della felicità, sprofondiamo immediatamente nelle sabbie mobili della noia. A che serve tutto questo Sali e scendi? A mantenere la nostra calma apparente, forse. Non appena si è placato il bisogno, quando abbiamo raggiunto, attraverso molti sacrifici, l’obiettivo prefissato, la vita, che non è altro che volontà, appare come svuotamento di se, e priva di senso.
Non so se il caro Shopenhauer volesse dire proprio questo, ma a mio avviso corrisponde alla situazione odierna dell’uomo, quindi non troverei da dire nulla di più vero.
Se il termine “intelligente” deriva dal latino “intus + legere”, la persona intelligente è colei che possiede quella capacità introspettiva di leggere dentro, di guardare attraverso il velo bugiardo della società, di andare oltre alle apparenze.
Se il vuoto che l’uomo sente dentro è insoddisfazione, stando alle teorie dell’illustre barbuto sopra citato, nulla ci è permesso di fare, al fine di scampare dalla noia e dalla delusione.
La morte, la guerra, le carestie, le malattie, un prato di vetri taglienti, un sangue che scorre irregolare al di fuori delle sue grondaie, lasciandoti candido, a terra, senza vita, un foro profondo, nel mezzo di due occhi vuoti e glaciali. Tutto questo fa parte di noi, e non abbiamo bisogno di ulteriore filosofare per affrontare la realtà dei fatti.
Arriva un giorno e ti ritrovi a vivere una doppia vita, diversa da quella che ti eri immaginato da bambino. Arrivi a 20 anni e i tuoi capelli non sono più folti come una volta, il colore vivace perde il suo carisma, gli occhi si affossano e si fanno più piccoli, il sorriso più spento. E hai solo 20 anni. Ma di principi azzurri a cavallo di un bellissimo unicorno bianco, non ce n’è neanche l’ombra. Sarebbe stato meglio desiderare un poni nero con in sella Napoleone Bonaparte, forse.
Se tutto questo è sbagliato, che senso ha il nostro caos primordiale?
Ho trascorso una vita a giustificare ogni comportamento umano, nel vano tentativo di dare una spiegazione logica al mondo, il mio, che mi roteava accanto senza sosta. Non avevo il tempo di focalizzare un punto nel mio planisfero colorato che già mi era sfuggito, già era scappato lontano, e io neanche l’avevo sfiorato.
Ho trascorso una vita nell’incessante ricerca di una cura, una cura per questo male che infligge l’uomo da troppo tempo.
Ho trascorso una vita a giustificare la cattiveria e l’immane egoismo dell’essere umano che, annegato nella codardia, spende i suoi giorni nascondendo la testa sotto la sabbia.
Tu, che dovevi insegnarmi l’amore fraterno.
Tu, che avevi il solo compito di amarmi e proteggermi, hai trascorso i tuoi anni a nascondere il bel faccino sotto al tuo candido abito da sposa.
Tu che dovevi essere la mia spalla, e crescere al mio fianco, mi hai privato del calore che mi spettava.
Mi hai lasciato sola, in mezzo al vuoto, a giustificare ogni tuo egoismo, e a scaldare le mie povere ossa accanto al fuoco di un camino.
Altro non mi resta che riempirmi la bocca e lo stomaco del tuo squallido veleno.
LA BALLERINA DALLE SCARPETTE LILLA
Che Arriva Sempre Troppo Tardi_
Ma Arriva.
Nessuno Ci Insegna A Fare Il Papà_
[Il mio papà era un pezzo grosso della società. Era rispettato e ben voluto da tutti. Era il solo medico di base di tutto il paese. Un lavoro che amava, che aveva ottenuto grazie ad un percorso di studio costante, impegnativo, lungo. Una scelta di vita sofferta la sua, che aveva intrapreso senza non pochi sacrifici, ma che sognava e desiderava dall’età dei cinque anni. Era un uomo temerario lui. Il lavoro lo teneva lontano da casa durante tutto il corso della giornata, almeno sei giorni su sette settimanali, e, considerando l’animo buono e generoso che sempre lo ha contraddistinto, mancava da casa anche alcune notti, nei casi d’emergenza. Non contento dell’importante ruolo che già rivestiva in città, ilo babbo decise un bel dì d’indossare l’avvolgente mantello di batman, e di candidarsi come vice sindaco nel consiglio comunale. Quest’ultima prodezza gli impegnò anche quel giorno restante della settimana, dove si spogliava del camice bianco, e anche quelle poche sere dove concedeva generosamente quelle poche pillole di affetto, regalando sempre un sorriso stanco e tirato alle due figlie].
[Il babbo lui, faceva sporadicamente qualche comparsa nelle nostre vite, sconvolgendo per quel breve attimo, il nostro saldo equilibrio di squadra].
[Si diceva in giro che fosse un uomo buono.
Si diceva in giro che fosse pure simpatico, e che usasse rallegrare l’atmosfera con qualche battuta di spirito.
Si diceva in giro che fosse un uomo geniale, che in un batter d’occhio desse il nome ad ogni male, e una possibile soluzione per risolverlo.
Era di certo un uomo molto amato.
E io lo vivevo attraverso gli occhi e le parole della gente].
Si diceva in giro che fosse pure simpatico, e che usasse rallegrare l’atmosfera con qualche battuta di spirito.
Si diceva in giro che fosse un uomo geniale, che in un batter d’occhio desse il nome ad ogni male, e una possibile soluzione per risolverlo.
Era di certo un uomo molto amato.
E io lo vivevo attraverso gli occhi e le parole della gente].
LA MIA BATTAGLIA CONTRO I MULINI A VENTO
Rivolgo La Mia Scrittura Alle Persone Che Mi Stanno Accanto, Che Mi Stimolano, Giorno Dopo Giorno, E Mi Ricordano La Mia Terribile Voglia Di Vivere, Crescere, Imparare.
Perché Non Smetterò Mai Di Rinnovare Me Stessa.
Coloriamoci Di Blu.
_Il Colore Dell'Intelligenza_
Noi, figli della società contemporanea, siamo cresciuti chini sui libri di scuola, a studiare il passato. Conoscere se non si può comprendere, per evitare di ripetere. Ignara, l’odierna società consumistica, che la storia si ripete continuamente, e che l’uomo, nella sua straordinaria intelligenza, la lezione non la impara mai.
Ho trascorso gli anni più belli della mia vita seduta sui banchi di scuola, ad immagazzinare nella mia memoria storie terribili, date importanti, fatti indelebili, marchiati nei libri scolastici.
Ho trascorso gli anni più belli della mia vita a studiare Omero, il grande vate, immaginando la sua cecità, desiderando ardentemente la sua infinita immaginazione.
Studiavo l’Iliade, sul libro di scuola, e mi perdevo immedesimandomi in Elena di Troia, incarnando la sua bellezza, il suo talento, la sua seducente femminilità. Vivevo in prima persona l’estrema guerra decennale, una battaglia logorante, distruttiva, che si risolve in grandiosi duelli fra nobili, in mirabili imprese di singoli eroi, con l’intervento diretto delle divinità, schierate a loro volta in opposte fazioni.
Ho Trascorso gli anni più belli della mia vita ad invidiare una donna fantasma, la bella Elena, invidiavo l’immagine che mi ero fantasiosamente costruita di essa, e il suo straordinario ed invincibile potere seduttivo.
Ho trascorso gli anni più belli della mia vita ad elemosinare qualche briciola d’amore, nel tentativo disperato di essere accettata, e amata.
Ho trascorso gli anni più belli della mia vita a costruirmi castelli immaginari, diretti derivati dalla mia incredibile fantasia, dalla mia voglia di amare, di crescere, e di rinnovarmi continuamente, giorno dopo giorno.
Ho passato le mie giornate ad ignorare il vero significato della vita, e ad ignorare che nell’Iliade tutti i re e i principi, si battono per la propria gloria personale; non per la patria, ne tanto meno per Elena.
L’Iliade altro non è che una festa crudele di guerrieri, che sfidano la morte ad ogni istante, solo ed esclusivamente per alimentare il loro gigantesco ego.
La bella Elena che tanto invidiavo, altro non era che un grazioso soprammobile.
Ho trascorso anni ad immaginarmi una vita parallela, dove avrei potuto sfruttare le immense qualità della bella Elena di Troia, e conquistare la felicità con la mia bellezza, seducendo il mondo intero attraverso la mia determinazione, e la voglia di vincere.
Ho subito una metamorfosi lunga e dolorosa, ritrovandomi nel giro di tre anni appena, ad indossare i panni di Don Chisciotte. Analogamente all’uomo di mezza età, protagonista indiscusso del libro “Don Chisciotte Della Mancia”, di Miguel de Cervantes, spendevo le mie preziose ore ad annoiarmi della quotidianità a cui ero costretta, a causa dell’estrema banalità del genere umano.
Disgustata da questo mondo che mi circonda decido di combattere una guerra personale, una battaglia rovinosa, uno spargimento di sangue continuo, per combattere ciò che ritenevo violento ed ingiusto.
Ho vestito i panni del valoroso Achille, armandomi di solitudine, spietato giudizio, rabbia e cattiveria verso il nemico, e anche verso me stessa. Entrai nel vortice della morte, condizionata continuamente dai media, e dalla corruzione sociale.
I mulini a vento simboleggiano il nemico, tanto temuto ma anche desiderato da me stessa. Altro non sono che demoni deformati, enormi giganti dalle smisurate braccia, e occhi taglienti come lame affilate.
Pur essendo cosciente della superiorità della loro infinita forza, immolo il mio inutile essere, scontrandomi contro il demone, nel disperato tentativo di difendere i miei ideali di giustizia.
E anche se perdo una battaglia, vincerò la mia guerra.
Ci sono incontri nella vita che vorresti non affrontare mai. Esistono realtà nella complessità della nostra esistenza che preferiresti non vedere, non ascoltare, non realizzare.
Esistono persone al mondo che trascorrono la vita in allegria, indossando perennemente una benda sugli occhi.
Ma Mosca Cieca non è mai stato il mio gioco preferito.
Quell’altra parte di me, che porta nelle vene lo stesso mio sangue, tornerà a casa, a colmare l’ultimo tassello di un puzzle composto da briciole e miserie.
E’ la portatrice sana di una malattia incurabile.
Lei non è estranea a questo mondo; lei appartiene ad una cospirazione segreta, composta da bugie e tradimenti; un gruppo di ragazzi che, in un tempo lontano, subirono un terrorismo psicologico, quando neanche possedevano l’età per allacciarsi le scarpe.
Non sono a conoscenza dei dettagli, il nostro rapporto non è mai stato dei migliori. Ha sempre odiato quell’esserino biondo, con gli occhietti vispi e furbi, del colore e della stessa consistenza del miele. Irriverente, peperina, impicciona, sempre in mezzo, con quella maledetta voglia di crescere, di apprendere, di vivere. Non ero certo un boccone tanto facile da digerire. In tutti questi anni le restai sempre nello stomaco, un po’ come un peperone crudo per cena.
Quando entrai, in punta dei piedi, in quel tunnel degli orrori, lei fu l’unica ad accorgersene.
Trovò il campanellino di una bicicletta rosso fiammante sotto il mio cuscino, piccolo trofeo che mi concedevo, per premiare il mio coraggio nel cacciare via quel dente dallo stomaco.
Lei sapeva dove mi stavo dirigendo, sapeva che sarei naufragata, ma non mi disse nulla.
Conosce il peso che si porta dietro un ladro di biciclette.
Battito di ciglia.
E’ bastato socchiudere le palpebre, il tempo di accendere una sigaretta, ed io ho di nuovo 16 anni.
Sono io, un po’ più giovane, i capelli color corvino, gli occhi troppo truccati, la maglia corta, che sfoggia un ventre invidiabile.
Sono sempre io, che lentamente mi coloro del mio sangue, ed assumo la consistenza del liquido, strisciando a terra, pochi secondi dopo. Ad atterrarmi una serie innumerevole di pugnalate, da una mano mancina, esperta, una dopo l’altra mi feriscono, mi lacerano l’anima, ma non mi uccidono.
Non mi uccidono perché sono qua, ad aspettare che Lei bussi a quella porta, per prendermi ciò che mi spetta, e per morire nel calore di un suo abbraccio.
LA BALLERINA DALLE SCARPETTE LILLA
Oggi, 15 Marzo, Presto La Mia Voce A Chi Non Ce L'ha.
A Chi Vorrebbe Urlare Ma Non Ha La Forza Di Muovere Un Muscolo.
A Chi Soffre In Silenzio.
A Chi Muore Lentamente.
Rivolgo La Mia Scrittura A Chi Insegna A Delle Povere Anime Ad Uccidersi.
A Chi E' Disturbato Dalle Mie Maiuscole.
A Chi Vive Annoiandosi.
A Chi Non Si Pone Domande.
Rompo Le Palle Perché Sono Nata Per Qualcosa.
E Se Devo Provocare, Che Provocazione Sia.
_Leggetemi E Condividetemi.
Amen_
Sei entrata nella mia vita, amica mia, senza bussare alla mia porta, senza chiedere il permesso, senza neanche guardarmi in faccia. Era il tramonto di uno di quei giorni, quelli che scorrevano lisci e tiepidi, nell’attesa infinita di un’onda, che non arrivava mai. La finestra socchiusa, rifletteva sul pavimento il triangolino di luce dell’ultimo sole. Mi piacevano i tramonti prima di conoscerti. Mi trasmettevano quella sensazione d’infinita attesa, che da sempre antecede il calare delle tenebre.
Ti sei distesa accanto a me, e, senza neanche voltarti, hai leccato le mie calde lacrime, e hai chiuso la tua mano nella mia, per un tempo infinito. La tua morsa era talmente forte da raggelarmi il sangue, e pietrificare l’intero mio corpo.
Possedevo tutto e niente, contemporaneamente. Desideravo tutto, e il contrario di tutto, volevo scappare ovunque, e non lasciare mai il mio morbido guanciale.
Quando c’eri tu nella mia vita, i paradossi e le contraddizioni erano all’ordine del giorno. I sorrisi erano sempre esagerati, gli occhi sempre troppo spenti.
Tentavo invano di fare un po’ di spazio dentro di me, per fare posto alla mia nuova amica.
Ma tu, amica mia, eri sempre incontentabile, furba e meschina.
Quella sera allungai la mano, per tenderla a te in gesto di amicizia, ma la tua avida morsa mi afferrò per il braccio, fino a succhiarmi via il cuore.
Ti sfoggiai con disinvoltura anche quel giorno, quando ti presentai alla mia amica d’infanzia. Storceva il naso e ti guardava con disprezzo. Non capiva quanto eravamo forti insieme.
Più il tempo passava, più mi penetravi nel profondo, fin nelle viscere, eravamo l’una il completamento dell’altra. Come una perfetta Ape regina, mi nutrivo del mio miele, e più ne mangiavo più avvertivo quel desiderio d’onnipotenza, quello che mi solleticava le orecchie facendomi sobbalzare ogni volta. Quel delirio inarrestabile, chiudeva il mio caldo sorriso, i denti digrignavano, gustando un misto tra eccitazione e terrore puro. Le mie ali leggere si incollavano a quella sostanza zuccherina, dalla consistenza viscosa, che era a mia culla ma anche la mia tomba. La luce nelle mie pupille bionde si spegneva lentamente, riflettendo la Luna.
Ancora non sapevo cosa mi stava succedendo, ancora non vedevo la malvagità del tuo essere.
Ma tu, dolce ballerina dalle scarpette lilla, mi volteggiavi dinnanzi, mi schiaffeggiavi in faccia le tua natiche, e mi possedevi, con la tua violenza inaudita.
Facevo l’amore con te una volta, e poi ancora un’altra, ed era sempre la prima volta. Entravi dentro di me danzando, e con una violenza straordinaria, assorbivi ogni mia sostanza liquida, abbandonandomi a terra in fin di vita.
Tu eri l’avvoltoio dominatore, quel demone leggero e profumato, dalle scarpette lilla.
Io ero una bella fatina, a cui tu avevi tagliato le ali.
Facevo l’amore con una donna per la prima volta.
Facevo l’amore con te, ballerina dalle scarpette lilla, e abbandonavo me stessa.
Facevo l’amore con te, e desideravo morire.
Non ho mai avuto il pollice verde. Le piante, quelle cose verdi che compaiono ogni tanto su un davanzale di una finestra, proprio non le ho mai guardate.
Ma arriva il giorno in cui ti ritrovi con un annaffiatore, stretto nella mano destra, e delle forbici, impugnate come arma letale nella sinistra.
Eccomi, immersa nel mio paradiso verde. Oasi felice o incubo terrificante?
L’aria che nutre i miei polmoni profuma di clorofilla, l’atmosfera è ovattata e surreale, e lunghe braccia legnose mi avvolgono, abbracciandomi amorevolmente. Ciascuna di quelle “bestie” partorisce gemme, bottoni, fiori, germogli. Sembra una gara alla maternità.
Poco mi importa. Il mio compito sarà di affogare quelle bestiole nel loro brodo putrido, terroso, sporco, viscido. Perché è viscido questo nuovo accessorio che va tanto di moda.
E che sarà mai una pianta? Mica la puoi indossare, portare con te, vestire, coccolare.
Viscide sono loro, perché si mostrano esteticamente gradevoli all’occhio umano, ma in realtà il loro unico scopo è quello di succhiarmi via l’energia vitale, privarmi dell’ossigeno, ed osservare mentre scavo lentamente la mia fossa, accanto alle loro radici.
Mi è forse sfuggito qualcosa?
C’è una piantina dinnanzi a me. Una piccola bestiola, che, colta nell’imbarazzo, china timidamente il capo, evitando palesemente il mio sguardo inquisitore. Ha delle gambe lunghe e snelle, ma non ama metterle in mostra. Non ostenta la sua bellezza esteriore, ma allunga il suo esile rametto, alla disperata ricerca di amore e conforto. La sua mano nodosa trova calore in quella rude e rugosa dell’albero della felicità.
Dev’essermi sfuggito qualcosa, si.
Anche le piante, queste bestie rare, hanno bisogno d’amore.
L'Avidità Di Un'Autopsia_Carne Da Macello
Non Resta Che Un Cumulo Di Ossa
L'Avidità Di Un'Autopsia_Carne Da Macello
Non Resta Che Un Cumulo Di Ossa
La mia adolescenza è stato un lavoro a tempo pieno. Ero una
ribelle di prima categoria, il mio compito era quello di disobbedire, far
credere alla gente che fossi esattamente quello che loro volevano che io fossi.
Ero bella, dannata, e menefreghista.
Il sogno di ogni ragazzo.
Possedevo le armi della seduzione; volteggiavo per i viali avvolta da quel giusto alone di mistero, una fragranza creata con un pizzico di ninfomania, mi permetteva di guadagnarmi quel trono di rose, che di dolce aveva solo il nome. Una volta che i miei capelli vennero adornati da quella corona di spine, avevo raggiunto l’apice del mio successo. Mi gustavo la mia condizione da Ape Regina, annusando il sapore della vittoria, e storcendo il naso per quanto sembrasse piccolo il mondo dall’alto.
L’Ape Regina poteva tutto. Comandare, ballare, cantare, ridere, giocare, baciare, fare l’amore. Solo una cosa non poteva fare. L’Ape Regina non poteva piangere.
Violai il mio unico comandamento in una notte senza stelle, quando il mio cuore era talmente buio da sembrare addirittura vuoto. Mi scivolò una lacrima innocente, che accolsi nel calore della mie labbra socchiuse.
Fu così che caddi.
Caddi rovinosamente. Il sapore amaro del mio sangue invadeva le mie papille gustative, scorreva generoso accarezzandomi il volto, e mi scaldava il petto con il suo calore. La corona di spine aveva fatto il suo dovere. L’Ape Regina era stata spodestata.
E’ così che ti scontri con la vita, che, senza mezzi termini, ti mette dinnanzi ad un bivio. La scelta più importante della tua vita.
Aprii gli occhi su me stessa che ero già distesa su un lettino da autopsia, pronta per diventare carne da macello, e vedere le mie membra ammassate in una fossa di cadaveri.
L’odore di morte mi penetrava fin nelle ossa.
Il mio cuore versava lacrime amare, la lama avanzava rapida sulla mia pelle, avida e prepotente, penetrava glacialmente sempre più in profondità, scavando nella mia anima.
Il mio respiro si faceva più lento, accondiscendente; il mio corpo accoglieva quel membro di metallo che scorreva lungo tutta me stessa, regalandomi cicatrici indelebili.
Ma il mio cuore, coraggioso, tamburellava flebili battiti.
Io ero ancora viva.
E da li dovevo ripartire.
Il Sasso Lanciato Nell'Oceano_ Un Boccone Affogato.
Il Boccone Perso Nel Bosco_ La Disperazione Della Scelta Giusta_
Esattamente come Hansel, tentavo invano di mantenere saldi i nervi, puntando tutto sulla parte di me Maiuscola, che avrebbe di certo trovato una soluzione. La mia mente malefica lavorava, architettando chissà quale altro salvagente, al quale aggrapparsi per non affondare, mentre il mio corpo si chiudeva a riccio, consolando la mia Gretel. Che altro non è che l’atra parte di me.
La Paura è una morsa che
si avvita all’interno del tuo stomaco, come un bullone ballerino, che viene
saldato da mani esperte, così stretto, da non far passare neanche un filo d’aria.
E’ un verme solitario, che s’intrufola all’interno di te, ti succhia via l’energia vitale, prosciugandoti come un fiume in secca.
E’ un barattolo di marmellata sottovuoto, che perde la sua capacità di emanare quel dolce profumo di confettura fresca.
E’ un tubetto di colore acrilico, che, chiuso troppo stretto, non riesce più ad espandere la bellezza del suo arcobaleno gioioso.
E’ una fatina con le ali legate, che non riesce più a volare.
La paura è un’Ossessione che colpisce tutti, senza beneficio del dubbio.
Ci congela, ci paralizza, impedisce ai nostri muscoli di rispondere ai comandi, alle corde vocali di gridare aiuto.
Anche le grandi menti provano il sentimento della paura.
Anche i grandi geni, come Leonardo da Vinci, Steve Jobs, Einstein, anche loro, almeno una volta nella vita, hanno provato terrore puro.
Mi capita spesso di pensare ai grandi film del regista Woody Allen; in realtà non ho mai amato molto il suo genere, in quanto non hai mai soddisfatto quella forte esigenza che grida dentro di me il bisogno impellente di un lieto fine. Le sue pellicole rappresentano una realtà ovattata, sbiadita, offuscata, dove i vizi e l’egoismo dell’uomo moderno, trascorrono una vita rallentata, ai bordi delle più grandi metropoli, nutrendosi della confusione e dei dubbi della gente. Il virus del malessere conquista terreno velocemente, e condiziona silenziosamente chiunque incroci il suo cammino.
La paura è una belva assetata di sangue, che non conosce limiti, ne pietà.
Un’Ossessione snervante, che sfinisce l’uomo, rassegnandolo ad una perenne condizione d’infelicità ed inadeguatezza.
Possiamo crogiolarci nel nostro male di vivere, imposto da questa società moderna.
Oppure scegliere di smettere di sopravvivere ed iniziare a vivere davvero.
Perché la vita si vive volando.
Ed è bellissima da quassù.
_Dal Vangelo Secondo Elisa_ Impariamo A Vivere Che E' Meglio_
L'Aperitivo Dei Combattenti_
L’ossessione non è mai un capriccio, ma un male di vivere che ti stringe alla gola, impedendoti di respirare.
E’ un’ossessione logorante, che si nutre dell’indifferenza della gente.
E’ un’Ossessione scomoda, con la quale non si può vivere.
E’ un’Ossessione scomoda, senza la quale non si può vivere.]
Ero bella, dannata, e menefreghista.
Il sogno di ogni ragazzo.
Possedevo le armi della seduzione; volteggiavo per i viali avvolta da quel giusto alone di mistero, una fragranza creata con un pizzico di ninfomania, mi permetteva di guadagnarmi quel trono di rose, che di dolce aveva solo il nome. Una volta che i miei capelli vennero adornati da quella corona di spine, avevo raggiunto l’apice del mio successo. Mi gustavo la mia condizione da Ape Regina, annusando il sapore della vittoria, e storcendo il naso per quanto sembrasse piccolo il mondo dall’alto.
L’Ape Regina poteva tutto. Comandare, ballare, cantare, ridere, giocare, baciare, fare l’amore. Solo una cosa non poteva fare. L’Ape Regina non poteva piangere.
Violai il mio unico comandamento in una notte senza stelle, quando il mio cuore era talmente buio da sembrare addirittura vuoto. Mi scivolò una lacrima innocente, che accolsi nel calore della mie labbra socchiuse.
Fu così che caddi.
Caddi rovinosamente. Il sapore amaro del mio sangue invadeva le mie papille gustative, scorreva generoso accarezzandomi il volto, e mi scaldava il petto con il suo calore. La corona di spine aveva fatto il suo dovere. L’Ape Regina era stata spodestata.
E’ così che ti scontri con la vita, che, senza mezzi termini, ti mette dinnanzi ad un bivio. La scelta più importante della tua vita.
Aprii gli occhi su me stessa che ero già distesa su un lettino da autopsia, pronta per diventare carne da macello, e vedere le mie membra ammassate in una fossa di cadaveri.
L’odore di morte mi penetrava fin nelle ossa.
Il mio cuore versava lacrime amare, la lama avanzava rapida sulla mia pelle, avida e prepotente, penetrava glacialmente sempre più in profondità, scavando nella mia anima.
Il mio respiro si faceva più lento, accondiscendente; il mio corpo accoglieva quel membro di metallo che scorreva lungo tutta me stessa, regalandomi cicatrici indelebili.
Ma il mio cuore, coraggioso, tamburellava flebili battiti.
Io ero ancora viva.
E da li dovevo ripartire.
Il Sasso Lanciato Nell'Oceano_ Un Boccone Affogato.
Senza Pietà.
Quella Voglia Di Vivere Che Ti Solletica Le Narici,
Correre, urlare, gridare, scalciare, prendere a botte,
tagliare, incidere, rovinare, distruggere, uscire e poi entrare, saltellare,
stringere fino a soffocare, rompere un vetro, buttarlo a terra per poi
camminarci sopra. Permettere al mio caldo sangue di schizzare fuori dalle mie
ferite, e di abbattersi rovinosamente in questo terreno sterile, che
rappresenta le fondamenta del mio essere.
Il cuore impazza nel petto, maledetto demone. Una
cardio-apatia si impossessa di me, rendendomi schiava di me stessa, totalmente
impotente, vittima e carnefice di un’altra parte di me, quell’alter ego
dominante, che penetra in tutte le menti geniali, per poi distruggerle.
Il gene è lo stesso, è quella vocina che fa capolino nel
cervello degli assassini, si schiarisce piano piano la gola, e inizia a
tormentare, giorno dopo giorno, quelle menti innocenti, e le trasforma, minuto
dopo minuto, in artefici del male.
Perché i tempi sono cambiati, i protagonisti dei massacri
più atroci non sono più mostri o serpenti, non vestono più un tetro mantello, i
malvagi non assomigliano più a quelli dei cartoni, non possiedono più quell’ego
rumoroso che li seduce, e li persuade a lasciare una traccia, un segno di se.
Le stragi più rovinose, i massacri più cupi e rumorosi, i
cutter più affilati, appartengono sempre al dirimpettaio della porta accanto.
Il vicino perfetto con cui fare due parole quando ci si incrocia per le scale,
e parlare della neve e del sole, perché alla gente si sa, piace annoiarsi con
fluttuanti futilità.
Questa è la banalità del male studiata e raffigurata da
Hannah Arendt.
Lei ha lanciato il sasso nell’Oceano, per istruirci, farci
conoscere quell’altra parta di noi. Il demone che si nasconde, nelle zone più
intime, nel privato, nelle fondamenta, sotto quel liquido corporeo accumulato
da troppo tempo. Si cela, occulta la ragione, e aspetta il momento giusto, si
quello giusto, per attaccare, distruggere, rovinare. Senza pietà.
Annah Arendt ha lanciato il sasso nell’Oceano e noi non
l’abbiamo colto.
Probabilmente eravamo troppo impegnati ad annoiarci,
conversando sul dramma dei cambiamenti climatici.
Il Boccone Perso Nel Bosco_ La Disperazione Della Scelta Giusta_
[Come una perfetta sognatrice
imito "Hansel e Gretel", nel loro pellegrinaggio, pieno di insidie e
pericoli, alla ricerca della giusta strada che li conduca finalmente a
casa.
Come una
disperata filosofa, condivido i pensieri terribilmente attuali
dell'opera "Aut Aut" di Kierkegaard, padre dell'esistenzialismo].
Lavorare su ste stessi è un impiego stancante ed
estremamente estenuante. Come un esperto zappatore, scavo nel passato, 25 anni
di vita, per scovare quelle prove, testimonianze infallibili, fatti concreti,
al fine di inchiodare un potenziale assassino.
Fotografare tutti gli indizi che ti hanno portato ad
intraprendere una determinata strada, ad inseguire la giusta pista, armata di
un paio di guanti in lattice, che ti lasciano un puzzo nelle mani
insopportabile, e fastidiosamente appiccicoso. Ma consentono di mantenere una
barriera, il giusto distacco con la parte più marcia di te.
Fotografare, analizzare, inscatolare. Un’analisi
introspettiva, una continua ricerca, per arrivare alle origini, scovare la
radici dell’anima, e riportarle a galla. E’ un lavoro meticoloso il mio, tanta
fatica per inchiodare un killer seriale, e condannarlo a morte.
Entrare nella mente di un assassino, per ripescare la vera
nascita del suo crudele sadismo.
Entrare nella mente di un alcolista, per ripescare la vera
nascita della sua dipendenza.
Entrare nella mente di un ladro di bicilette, per ripescare
la vera nascita della sua cleptomania, che sta alla base di un profondo
malessere.
Entrare nella mia, è stata un’impresa titanica, pericolosa,
degenerante; ma allo stesso tempo il viaggio più avventuroso che io abbia mai
fatto.
La mia pista è partita da una fotografia della normalità,
dai colori un po’ sbiaditi e gli angoli spiegazzati. Il ritratto di una bella
ragazza, come tante altre; sorride scoprendo un po’ troppo i denti irregolari, ma
ha gli occhi spenti, persi nel vuoto. Indossa un vestito molto corto, uno di
quelli che ti regala la libertà di assaporare le carezze del vento, anche nelle
zone più intime e oscure dell’inguine. E’ una donna esibizionista, oppure
un’anima innocente, che implora disperatamente uno sguardo.
La mia pista mi ha condotto ad un bivio. Due strade
parallele, simili, ma estremamente diverse: una asfaltata, e contornata da
aiuole fiorite; l’altra ciottolata, ricoperta di ghiaia, un terreno
terribilmente sterile. La prima saliva, saliva, saliva, e man mano che
raggiungeva le stelle, la superficie aumentava esponenzialmente, da una
semplice via si era trasformata in una bellissima superstrada a doppia corsia.
L’altra scendeva, giù, sprofondando fin sotto terra, e si stringeva, mutando il
suo aspetto in un sentierino di campagna, obbligando quasi la fila indiana.
Raggiunto quel bivio mi sono ritrovata sopraffatta dalla
disperazione che sta dietro ad ogni scelta. Così diceva Kierkegaard, nella sua
opera “Aut Aut_ O, O”, esponendo il grande peso esistenziale della scelta, e il
definitivo compito, che ognuno ha in quanto individuo, della realizzazione di
se. Analogamente il mio sangue solidificava nelle mie vene, bloccava i miei
muscoli, mi pietrificava dinnanzi a quella scelta che tanto mi turbava. Un
involucro senz’anima sbiadiva i suoi colori, fino a diventare una monotona
scala di grigi, davanti alla scelta di due parti di se.
Due strade, due personalità, due aspetti, e due caratteri
totalmente diversi. Una enorme, gigantesca, bella e fiorita, permetteva
addirittura di accogliere l’affluire del traffico domenicale; l’altra stretta,
sterile, calpestata, rendeva difficoltoso la percorrenza tenendo per mano
un’anima affine.
Due vie che riconducevano ad un’unica direzione: la
salvezza.
Come un’abile Hansel avevo sparso le mie briciole di pane sul
terreno di entrambe le strade, nel disperato tentativo di ritrovare finalmente
la mia casa; l’unico posto dove avrei potuto stare in pace con me stessa, ed
abbracciare il mio essere, nella sua totalità.
Esattamente come Hansel avevo perduto la via del ritorno, e
mi ritrovavo smarrita in mezzo ad un bosco spento e scheletrico, che odorava di
fallimento.
Esattamente come Hansel, tentavo invano di mantenere saldi i nervi, puntando tutto sulla parte di me Maiuscola, che avrebbe di certo trovato una soluzione. La mia mente malefica lavorava, architettando chissà quale altro salvagente, al quale aggrapparsi per non affondare, mentre il mio corpo si chiudeva a riccio, consolando la mia Gretel. Che altro non è che l’atra parte di me.
Donne Controcorrente_
Dedicato a Tutte
Quelle Donne Che Vivono Una Vita Intera Annaspando Nelle Loro Menzogne, A
Tutte Quelle Che Hanno Perso Loro Stesse, Vestendo Succinti Panni Che
Poco Le Appartengono; Addobbandosi Con Vistosi Accessori, Solo Per
Riconoscersi Allo Specchio, E Portando Una Folta Chioma Colorata e
Laccata, Che Annebbia Loro Il Cervello.
[Quella mattina mi svegliai avvolta da una fresca fragranza,
che, solleticandomi le narici, mi invitava ad aprire gli occhi ad un nuovo
giorno.
Il mio olfatto non mente mai, di certo si trattava di
mimosa.
Decisi di assaporare quell’istante bloccandolo nella testa,
imprimendolo come marchio indelebile nella mia memoria. La mente vagava libera
nell’infinito del mio inconscio, il cuore scalpitava nel petto, improvvisando
una danza africana; il sangue scorreva dalle punte dei piedi fino al cervello,
attraversando veloce l’intera superficie del mio corpo. Mani esperte ripulivano,
con un soffio di fiato, la mia anima da ogni negatività, come si fa con una
superficie riflettente; i pensieri ora apparivano limpidi, abbracciando questa
nuova condizione di libertà assoluta.
Tutto era pronto, i miei occhi non aspettavano altro che il
calore di un bacio, per aprirsi al nuovo giorno.
L’immagine di un nuovo inizio, si riflesse nelle pupille di
una ragazza, che ancora non si è stancata di lottare per ottenere ciò che le
spetta.
Una ragazza che non ha bisogno di una mimosa per sentirsi
donna.
Una ragazza che non ha bisogno di un uomo per sentirsi
realizzata.
Una ragazza che ha voglia di vivere.]
_NonE'UnCapriccio_MaVogliaDiLibertà_
_La Malvagità Dell'Essere. IL Tradimento_
Come Un Soffio Di Vento, Arriva, Ti Spoglia, E Ti Priva Di Te Stessa.
E' Stato Solo Un Attimo Di Freddo.
[Respiravo un’aria pesante quella sera, sentivo lo stomaco
attorcigliato, l’intestino rivoltato, un nodo alla gola, che contribuiva ad
aumentare la salivazione.
Avvertivo il presagio di una catastrofe imminente.
L’aria di quella casa era pesante, il tuo odore aleggiava indisturbato; entrava nelle mie narici senza chiedere il permesso, e mi impediva di respirare.
Ancora non c’eri, ma l’odore della tua pelle già mi soffocava .
Trattenni il fiato quando avvertii la tua sagoma su di me, pronta a privarmi della mia bellezza.
Trattenni il fiato anche quando, con un atto di violenza, mi succhiasti via la vita.
La profezia si era avverata, ed io ero la complice di un orribile tradimento.]
Il Boccone Solitario_ Il Giudizio Universale
Avvertivo il presagio di una catastrofe imminente.
L’aria di quella casa era pesante, il tuo odore aleggiava indisturbato; entrava nelle mie narici senza chiedere il permesso, e mi impediva di respirare.
Ancora non c’eri, ma l’odore della tua pelle già mi soffocava .
Trattenni il fiato quando avvertii la tua sagoma su di me, pronta a privarmi della mia bellezza.
Trattenni il fiato anche quando, con un atto di violenza, mi succhiasti via la vita.
La profezia si era avverata, ed io ero la complice di un orribile tradimento.]
Il Boccone Solitario_ Il Giudizio Universale
_Perché Noi Siamo I Giudici Più Inflessibili Di Noi Stessi_
Dopo il Bianco E Nero, Ora, Da Me Stessa, Mi Aspetto Solo Un Caldo Tramonto.
Arriva un giorno in cui la vita ti sbatte in faccia la
realtà. E tu ti ritrovi costretta a mostrare le carte in tavola, a spogliarti
dai bei vestiti, ad accettare la cruda banalità del tuo essere, nel bene e nel
male; perché nudi come dei vermi, siamo davvero tutti uguali, e banali.
Da bambini ce lo insegnava Pinocchio, che le bugie hanno le
gambe corte, si, per diventare dei bravi ometti era doveroso dire sempre e
comunque la verità.
Ma una volta che cresci, chi viene ad insegnarti a vivere?
Chi viene ad indicarti la direzione giusta per ottenere dei risultati, e una
buona condizione della vita?
Arriva un giorno in cui Pinocchio è davvero troppo lontano
dai tuoi pensieri, e le menzogne crescono nella tua mente, intralciano il tuo
cammino, e si ribellano al tuo potere, fuggendo al tuo controllo.
Arriva il giorno in cui le bugie diventano talmente
gigantesche da farti inciampare in esse, e ti ritrovi improvvisamente a
spogliarti dal tailleur di donna per bene, e a rotolare giù, sempre più giù.
Dal castello di sabbia, alla cruda realtà.
Dal tailleur di classe, alle mutande e reggiseno della
nonna, per assicurarsi comodità e praticità.
Dalla gamba fine e depilata, alla foresta amazzonica.
Dal bel faccino truccato, all’acqua e sapone.
Arriva il giorno in cui ogni essere umano deve fare i conti
con se stesso, e non è necessariamente un giudizio universale, non è un
passaggio da vita terrena ad un’altra “superiore”, non è il confronto con un
giudice supremo, ma semplicemente con il nostro io interiore; che in fondo, è
anche il critico peggiore.
Ho passato una vita a fuggire da me stessa, correndo 25 anni
una folle corsa campestre, gareggiando con un’altra parte di me.
Ho trascorso 25 anni
in un Luna Park, a scendere e salire dalle montagne russe; volavo in alto nel
cielo, con il cuore in gola, e un’adrenalina pazzesca che mi scoppiava come
sangue nelle vene, e precipitavo a picco nel vuoto, con gli occhi sbarrati, e
pervasa da un’angoscia paralizzante.
Ho trascorso 25 anni a volteggiare nell’aria, legata ad un
seggiolino di altalena; un momento allungavo le mie stanche gambe il più
possibile, quasi a voler raggiungere l’infinito, un attimo dopo sprofondavo
nella sabbia.
Ho trascorso 25 anni legata ad un albero; trasmettevo gioia
e felicità alla gente, soltanto emanando luce e calore ad intermittenza. Ma
esprimevo me stessa, esibendomi come una modella, in tutto il mio metro e 55 di
bellezza, per un nano secondo. Poi mi spengevo, mi perdevo nel buio,
rifugiandomi negli angoli più oscuri del mio essere.
Ho trascorso 25 anni a colorarmi di bianco, rotolandomi
senza sosta nell’acrilico da parete, ma quando è arrivata l’ora di tinteggiare
le pareti della mia vita, sono inciampata nel colore nero, e lì ci sono
sprofondata.
Ora mando giù bocconi amari, strozzandomi ad ogni tentativo
di rompere quel maledetto silenzio, in quel maledetto refettorio. Un po’ per
una zucchina, che non riesce ad immettersi nel giusto canale, un po’ perché
percepisco il rumore della mia coscienza, che si dimena, urla, sovrastando la
mia stessa voce.
Pranziamo avvolte in un’atmosfera inquietante, invasa da un
silenzio surreale.
Nessuna osa staccare lo sguardo dal proprio vassoio. Solo il
miei occhi vagano, un po’ incerti, in cerca di un abbraccio.
Quel Boccone Amaro Che Ti Strozza_ La Paura
E’ un verme solitario, che s’intrufola all’interno di te, ti succhia via l’energia vitale, prosciugandoti come un fiume in secca.
E’ un barattolo di marmellata sottovuoto, che perde la sua capacità di emanare quel dolce profumo di confettura fresca.
E’ un tubetto di colore acrilico, che, chiuso troppo stretto, non riesce più ad espandere la bellezza del suo arcobaleno gioioso.
E’ una fatina con le ali legate, che non riesce più a volare.
La paura è un’Ossessione che colpisce tutti, senza beneficio del dubbio.
Ci congela, ci paralizza, impedisce ai nostri muscoli di rispondere ai comandi, alle corde vocali di gridare aiuto.
Anche le grandi menti provano il sentimento della paura.
Anche i grandi geni, come Leonardo da Vinci, Steve Jobs, Einstein, anche loro, almeno una volta nella vita, hanno provato terrore puro.
Mi capita spesso di pensare ai grandi film del regista Woody Allen; in realtà non ho mai amato molto il suo genere, in quanto non hai mai soddisfatto quella forte esigenza che grida dentro di me il bisogno impellente di un lieto fine. Le sue pellicole rappresentano una realtà ovattata, sbiadita, offuscata, dove i vizi e l’egoismo dell’uomo moderno, trascorrono una vita rallentata, ai bordi delle più grandi metropoli, nutrendosi della confusione e dei dubbi della gente. Il virus del malessere conquista terreno velocemente, e condiziona silenziosamente chiunque incroci il suo cammino.
La paura è una belva assetata di sangue, che non conosce limiti, ne pietà.
Un’Ossessione snervante, che sfinisce l’uomo, rassegnandolo ad una perenne condizione d’infelicità ed inadeguatezza.
Possiamo crogiolarci nel nostro male di vivere, imposto da questa società moderna.
Oppure scegliere di smettere di sopravvivere ed iniziare a vivere davvero.
Perché la vita si vive volando.
Ed è bellissima da quassù.
_Dal Vangelo Secondo Elisa_ Impariamo A Vivere Che E' Meglio_
L'Aperitivo Dei Combattenti_
Perché io Ancora Mi Chiedo Cos'è Quell'Ossessione Che Vive Dentro Di Me_
[E’ un male di vivere, un’ossessione continua che ti divora
dentro, nutrendosi dei tuoi organi vitali, e maciullando la tua stessa carne.
Come cocktail, poi, si gusta il tuo sangue ghiacciato, in una flute da
champagne, adornata da un ombrellino colorato.
E’ un giro della morte, un circolo vizioso che ti trascina
nel vortice di un malessere interiore, dal quale è difficile ritornare a galla.L’ossessione non è mai un capriccio, ma un male di vivere che ti stringe alla gola, impedendoti di respirare.
E’ un’ossessione logorante, che si nutre dell’indifferenza della gente.
E’ un’Ossessione scomoda, con la quale non si può vivere.
E’ un’Ossessione scomoda, senza la quale non si può vivere.]
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