Frammenti di un racconto_
Un racconto che parla di me, di te, di noi_
Un racconto che parla di cosa ci rende vivi,
umani, fragili e forti.
[...]
[Sapevo che era la fine. Percepivo gli sguardi, pesanti come macigni, degli ospiti che abitavano i tavolini accanto al mio. Un ammasso indistinto di bambole di ceramica, tenute insieme da lunghi fili che permettevano loro piccole, ma violente torsioni. Un cumulo di marionette, appartenenti ad una giostra più grande, che muoveva i suoi primi passi al di sopra delle nostre ignare scatole craniche, colme di cozze, alio e sughetto, cotto al punto giusto, e condito con una spolverata di basilico; ma povere di cervello.
La giostra della morte, o forse, semplicemente il triste destino dei peccatori.Sapevo che era la fine.
Volti di plastica, lividi e poco nitidi, scorrevano dinnanzi alla mia retina. Le mie pupille lignee riflettevano immagini sfumate e impallidite di un allegro pranzo della domenica. Occhi stanchi, spenti e poco attenti, simili a bottoni scuri, cuciti maldestramente sul volto di bambole abbandonate; fissavano la mia presenza senza mai osservarla. Oltrepassavano la mia esistenza, come se altro non fossi che un semplice specchio, in cui riflettere la loro finta immagine di plastica.
Stavo morendo dinnanzi agli occhi di tutti, eppure nessuno mi vedeva, nessuno mi degnava di uno sguardo. Nessuno pareva percepire il mio dolore. Quel dolore che mi lacerava voracemente le carni.
Le mie mani avevano assunto un aspetto oleaginoso, una consistenza caratteristica di una sostanza lipidica, unta, viscida, ricca di sostanze grasse, contenute in forma di microscopiche goccioline nelle cellule dell’albume, o nei cotiledoni.Ero viscida, lubrica, scivolosa, sdrucciolevole, come un vicolo dopo una pioggia torrenziale.
Ero sciolta, umida e molliccia, quando il calore del mio sedere abbandonava definitivamente l’ultima seggiola della taverna.
L’ombra di una ragazza perfetta, stretta in un paio di jeans attillatissimi, faceva appello ad un equilibrio instabile ed incerto, mentre appropinquava il suo fragile corpicino alla cassa della taverna. Fragile ed incerto anche il suo sguardo vuoto, perso in chissà quale lontano girone dell’inferno. Profumava di colonia, mista a sughetto di pesce; le dita insanguinate ricordavano le rovine di una violenta battaglia persa, che non smetteva di versare liquido sanguigno. Una guerra contro se stessa, una violenza alimentare, una ferocia ingordigia, oppure semplicemente una lotta continua contro l’onicofagia.
<<Grazie ed arrivederci>>. Salivo gli scalini della taverna, riemergevo dalle fiamme di un inferno, per annegare in un altro][...]
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