Quando tutto sembra andare di Merda non bisogna mai
dimenticarsi che c’è qualcuno dall’altra parte del mondo che sta peggio di te.
In alcuni casi l’altra parte del mondo coincide con la stessa claustrofobica
stanza, dalle pareti di un color bianco sporco, quel colore che ingiallisce nel
tempo a causa del troppo fumo respirato. I muri sono sempre le vittime peggiori
del nostro fumo passivo.
Arrivo rombando con il mio bolide, tagliando le curve di
quel parcheggio sempre sovraffollato, che sembra volermi dire ogni giorno “non
c’è posto per te”. Sbuffa la macchina sotto le mie rotonde natiche, e sbuffo
io, che vorrei avere il potere di auto-eliminarla a piacere quando non so più
dove mettermela.
Mi attraversa pericolosamente la strada un funghetto tutto
avvolto in un caldo cappotto decisamente enorme, e un nasino che spunta da un
cappellino nello stile grande puffo. “Coglione” vorrei urlare dal finestrino;
poi due occhioni chiaramente persi chissà dove, di certo molto lontani da qui,
mi sorridono. La sigaretta stretta tra l’indice e il medio della mano sinistra
si consuma piano piano, inquinando quel poco che resta di bianco candido, in
questo posto così sporco. Chissà, forse lei è talmente avanti che pure la sua
sigaretta vive di vita propria, e si fuma da sola. Probabilmente lei ora si
trova in qualche isola dispersa nell’oceano pacifico, e balla la samba coperta
unicamente da un bikini colorato, e qualche fiore qua e la che le rinfresca i
capelli.
E’ la mia amica Minnie, che si ferma ad un centimetro dalla
mia lancia, con fare da donzella che attende di
montare in sella della Ferrari del suo manzo. noncurante ovviamente del
pericolo scampato, allarga il suo volto scavato nel sorriso migliore che
possiede. Essendo sdentato non è proprio un bello spettacolo, ma chi si accontenta
gode. (Chi avrà mai inventato sto detto cretino poi…)
“Parcheggi?, ti aspetto!”
Tenera la mia nuova migliore amica, l’ho sempre detto che
Minnie è mezzo metro avanti a tutte, e poi queste sono le prime parole che
sento uscire da quelle corde vocali mezze marce, che conferiscono un vocione da
Gabibbo rauco ad un corpicino così esile.
Con il cuore gonfio di gioia
lancio qualche urletto stridulo, “Mi ha parlato, mi ha parlato”, lo sapevo che
Minnie spacca, e alla grande anche! Sotto l’effetto di questa euforia
momentanea mi cimento in un parcheggio in retromarcia, come un’esperta pilota
di formula uno realizzo un posteggio degno di nota. Il fatto che una ruota sia
su un marciapiede è un dettaglio irrilevante.
Varco la soglia di quell’edificio
grigio, dai muri scrostati pervasa dalla delusione: Minnie è scappata, non mi
ha aspettato. Si prospetta un altro bell’allegro pranzetto.
Avviandomi verso il cucinino, per
recuperare quel vassoio ospedaliero che porta il mio nome, sbatto
incidentemente contro un automa. Lo sguardo trapassa la mia persona fuggendo
chissà dove.
“Minnieeeee, sono io, ci siamo
incrociate prima…”
Vorrei urlare ma la voce mi si
blocca in gola, il silenzio di questa stanza è assordante.
L’unico rumore costante e
ripetitivo che scandisce i minuti di questo infinito pasto è il ruminare di
Minnie, intenta a masticare il suo pezzo di carne.
E dire che la sua bocca è
spaventosamente sdentata.
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