domenica 10 gennaio 2016

Charlie hebdo, un anno dopo

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Un anno è passato dalla strage di Charlie Hebdo, e siamo ancora qui.

Siamo ancora qui a soffiarci il naso su fazzoletti di seta, baciando il crocefisso, e dicendo la nostra Ave Maria prima di andare a letto, per i poveri innocenti che hanno perso la vita nell’attentato del 7 Gennaio a Parigi.

Siamo ancora qui a ricalcare una spiritualità che neanche ci appartiene, a osannare vignette a cui mai avremmo rivolto la nostra attenzione, a piangere illustratori che neanche conoscevamo.

Chi erano questi vignettisti?

Il più noto era certamente Georges Wolinski, il vero antenato della rivista. Si autodefiniva “cattivo, odioso, di pessimo gusto”, di fatto si fece subito strada nella satira politica, il suo nome viene ricordato per il suo umorismo, per la sua cattivissima matita, per le sue vignette erotiche, per il suo essere sempre “politicamente scorretto”.

Un altro vignettista era il direttore di Charlie Hebdo, Stephan Charbonnier, in arte Charb.

Ricordata da tutti, in quanto diventata in qualche modo simbolo della tragedia parigina, la sua celebre frase: “Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una moglie, non ho un auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”. Sì, suona pomposo, ma altrettanto reale.

C’era anche Lean Cabut, in arte Cabu, che alla veneranda età di 76 anni, era a Charlie Hebdo da sempre. C’erano anche Philippe Honoré e Tignous.

Loro erano dei talenti indiscussi dell’illustrazione, loro possedevano il dono. Loro erano Charlie Hebdo.

Ma cosa vuol dire essere Charlie Hebdo? Condividere ogni idea, opinione, vignetta satirica pubblicata nella suddetta rivista, oppure credere semplicemente nella libertà di esprimere la propria opinione?

E’ passato un anno dalla strage di Charlie Hebdo, e noi siamo ancora qui, ad additare un colpevole, a piangere una vittima. Siamo ancora qua a schierarci da una parte o dall’altra. Siamo ancora qui, a sputare addosso a religioni, reduci dalla Santa Messa domenicale, durante la quale abbiamo attentamente riflettuto su quanto sia attraente il fondoschiena della ragazza davanti, con le mani giunte in preghiera.

Da quando è successo il tragico attentato quel maledetto 7 Gennaio il nostro buon senso è stato risucchiato nel girone infernale dei media, dove le idee circolano vorticosamente, raggiungendo un altissimo numero di audience in pochi secondi. Dunque, le opinioni sensate si mescolano facilmente con idee partorite da decelebrati. Non sono qui per insultare nessuno, ma più che altro per ammettere che inevitabilmente su 7 miliardi di persone al mondo esista una buona percentuale di imbecilli; le idee di questi ultimi vengono pubblicate in rete, creando questa sovrabbondanza di informazioni alla quale assistiamo ogni giorno.

E questa bulimia di informazioni è irritante, contraddittoria, sconveniente.

Sarà mai possibile fare satira rispettando l’altro?

Ridere è liberatorio, e il mondo ha bisogno di leggerezza, ma l’offesa nei confronti dell’altro è il rischio che si corre facendo uso della comunicazione. Nella natura della comunicazione stessa il pericolo dello scontro tra due soggetti è inevitabile. Il limite della decenza, esattamente come il senso del pudore, non sono nient’altro che convenzioni sociali, culturali, destinate a mutare nel tempo, a smussarsi nel corso degli anni. Nel corso di questi ultimi anni abbiamo di fatto mutato notevolmente la nostra mentalità, abbracciando una visuale a larghe vedute.

E ora, stiamo forse diventando indecenti?

E’ un dato di fatto che l’essere umano non è abituato all’autocritica, ed è altrettanto un dato di fatto che offendere, andando a colpire la zona più sensibile, il tallone d’Achille di milioni di persone, forse è un po’ troppo.

E vogliamo parlare della figura dell’illustratore? Fino ad un anno fa viveva immerso nella sua nuvoletta naif, si accettava l’idea che fosse leggermente squilibrato, pigro, se capellone, puzzolente e con la barba lunga ancora meglio. Quanti di voi possono ammettere con certezza di non aver mai pensato alla figura dell’illustratore come il nullafacente che viene pagato per mordicchiare una matita e fare due scarabocchi su un foglietto?

Adesso l’illustratore è diventato peggio di un soldato in prima linea. Pronto a tutto, anche alla morte.

Mi sono interrogata più volte su quale fosse una corretta reazione di fronte a frasi del tipo “E’ colpa dei migranti! Loro ci invadono per sterminarci, e noi accogliamo tutti. Che vergogna”. E ho dedotto che un modo giusto per reagire non esiste. Non esiste il giusto, il sbagliato. Esiste solo la verità.

E la verità è che un anno è passato, la satira continua, le vignette di Charlie Hebdo tornano a far discutere, noi continuiamo a lamentarci, ad indignarci, a osannare prima Charlie, poi il Papa, poi chissà cos’altro.

L’editoriale di Riss apparso nell’ultimo numero di Charlie Hebdo, a un anno dalla strage, è corrosivo, acido, tagliente, nella strenua difesa della laicità. Denuncia i fanatici imbruttiti dal Corano, e i “culs benits” delle altre religioni, che hanno scongiurato la morte del giornale, per aver orato ridere del religioso. Ho deciso di riportare il termine in lingua originale, per lasciare a voi il piacere di attribuirgli la giusta interpretazione.

Le parole di Riss sono laceranti, a tratti volgari, e sature di dolore e rabbia.

“Non saranno tuttavia dei piccoli coglioni incappucciati a rovinare il lavoro delle nostre vite. Non sono loro che vedranno morire Charlie, ma sarà Charlie che vedrà crepare loro.”

Il disegnatore ricorda i colleghi che hanno perso la vita durante la strage, parlando di loro come degli emarginati, ma con un talento benedetto da Dio. Eppure non credevano in Dio, disegnavano e basta.

“Il gusto della vita ci faceva passare l’angoscia della morte. Ma la religione non conosce tempi, limiti, ed è tornata a colpirci ancora. La morte ha sempre fatto parte del giornale, prima assaporavamo il gusto amaro della morte economica; ora sentiamo l’odore acre della polvere, che contraddistingue la morte definitiva. Tutto Charlie è morto”.

Kalashnikov in spalla, tunica sporca di sangue, sguardo spaventato a morte. E’ un Dio barbuto un Dio generico, di tutte le religioni, quello che appare nell’ultima copertina, proprio ad opera del direttore del giornale, Riss. “L’assassino corre sempre”, questo l’ultimo frammento di satira, questa l’indignazione da parte della redazione, della Francia, del mondo intero, nei confronti di quell’assassino, che nonostante sia trascorso un anno dalla strage, è ancora in libertà.

Un’immagine dinamica, una copertina graffiante, che gioca abilmente sul contrasto della figura bianca schiacciata su uno sfondo nero, macabro, inquietante, alla “Star wars”, come a voler ricordare al lettore che Parigi non cade, non si ferma, continua a correre.

Ma questa non è la sola immagine che ci porta a riflettere.

In nome di Allah gli assassini hanno massacrato intere comunità in Africa, ucciso studenti in un’università del Kenya, colpiscono l’India, l’Indonesia, la Birmania, la Libia, la Tunisia. Il 10 Ottobre, poco prima di una grande manifestazione pacifista ad Ankara, due kamikaze si fanno esplodere tra la folla. E il 13 Novembre Parigi torna a tremare.

E’ proprio in risposta all’ultima strage parigina che Charlie Hebdo partorisce un’altra copertina dai toni incisivi, firmata Coco. L’immagine rosso fuoco mostra un omino con il corpo crivellato, dal quale esce a fiotti lo champagne, che si sta bevendo allegramente. “Loro hanno le armi, si fottano, noi abbiamo lo Champagne”, questo il titolo che accompagna l’immagine suggestiva della copertina. Senza accorgersene i parigini sono diventati un po’ i londinesi del 1940, determinati a non cedere alla violenza, né alla paura, né alla rassegnazione.

Curioso il fatto che la copertina esca in concomitanza con la pioggia di fuoco, i bombardamenti intensi scatenati dalla Francia su Raqqa, come prima risposta alla strage. Forse era meglio bombardare a colpi di Champagne.

Se al terrorismo rispondiamo con i bombardamenti, quale sarà il prossimo passo? La bomba a idrogeno?

Ma siamo davvero sicuri che Parigi non ha paura? Una anno è passato, i giornali continuano a parlarne, la politica si è mobilitata, la Francia è divisa interiormente, i servizi di sicurezza sono vigili ai massimi livelli, dappertutto si vedono poliziotti e militari. Eppure questo non ha impedito la strage del 13 Novembre.

Paura, terrore, confusione, polvere, distruzione.

#Je suis Charlie, #je suis Paris. Non ci riesco. Non ci riuscivo allora e non ci riesco neanche adesso.

E non perché io non ami la capitale francese, la amo, eccome se l’ho amata! Ricordo l’emozione provata non appena sfiorai il suolo parigino, già m’immaginavo a vagabondare per le vie di Montmartre, baschetto in testa, tavolozza in mano, a distorcere la realtà sulla carta.

Ma non sono Parigi, perché le vittime sono ovunque. Il sangue degli innocenti non sta macchiando solo la Francia. Ogni giorno i bombardamenti causano milioni di morti in Siria, e in Libia, in Tunisia, in Kenya e… Ovunque.

Quindi non sono Parigi, non sono Charlie, non sono nessuno se non me stessa.

E mi chiedo se il mondo smetterà mai di respirare l’odore acre della polvere da sparo.

 

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