Un anno è passato dalla strage di Charlie Hebdo, e siamo ancora qui.
Siamo ancora qui a
soffiarci il naso su fazzoletti di seta, baciando il crocefisso, e dicendo la
nostra Ave Maria prima di andare a letto, per i poveri innocenti che hanno
perso la vita nell’attentato del 7 Gennaio a Parigi.
Siamo ancora qui a
ricalcare una spiritualità che neanche ci appartiene, a osannare vignette a cui
mai avremmo rivolto la nostra attenzione, a piangere illustratori che neanche
conoscevamo.
Chi erano questi
vignettisti?
Il più noto era
certamente Georges Wolinski, il vero antenato della rivista. Si autodefiniva
“cattivo, odioso, di pessimo gusto”, di fatto si fece subito strada nella
satira politica, il suo nome viene ricordato per il suo umorismo, per la sua
cattivissima matita, per le sue vignette erotiche, per il suo essere sempre
“politicamente scorretto”.
Un altro vignettista
era il direttore di Charlie Hebdo, Stephan Charbonnier, in arte Charb.
Ricordata da
tutti, in quanto diventata in qualche modo simbolo della tragedia parigina, la
sua celebre frase: “Non ho paura delle rappresaglie. Non ho figli, non ho una
moglie, non ho un auto, non ho debiti. Forse potrà suonare un po’ pomposo, ma
preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio”. Sì, suona pomposo, ma
altrettanto reale.
C’era anche Lean
Cabut, in arte Cabu, che alla veneranda età di 76 anni, era a Charlie Hebdo da
sempre. C’erano anche Philippe Honoré e Tignous.
Loro erano dei
talenti indiscussi dell’illustrazione, loro possedevano il dono. Loro erano
Charlie Hebdo.
Ma cosa vuol dire
essere Charlie Hebdo? Condividere ogni idea, opinione, vignetta satirica pubblicata
nella suddetta rivista, oppure credere semplicemente nella libertà di esprimere
la propria opinione?
E’ passato un anno
dalla strage di Charlie Hebdo, e noi siamo ancora qui, ad additare un
colpevole, a piangere una vittima. Siamo ancora qua a schierarci da una parte o
dall’altra. Siamo ancora qui, a sputare addosso a religioni, reduci dalla Santa
Messa domenicale, durante la quale abbiamo attentamente riflettuto su quanto
sia attraente il fondoschiena della ragazza davanti, con le mani giunte in preghiera.
Da quando è
successo il tragico attentato quel maledetto 7 Gennaio il nostro buon senso è
stato risucchiato nel girone infernale dei media, dove le idee circolano
vorticosamente, raggiungendo un altissimo numero di audience in pochi secondi.
Dunque, le opinioni sensate si mescolano facilmente con idee partorite da
decelebrati. Non sono qui per insultare nessuno, ma più che altro per ammettere
che inevitabilmente su 7 miliardi di persone al mondo esista una buona
percentuale di imbecilli; le idee di questi ultimi vengono pubblicate in rete,
creando questa sovrabbondanza di informazioni alla quale assistiamo ogni
giorno.
E questa bulimia
di informazioni è irritante, contraddittoria, sconveniente.
Sarà mai possibile
fare satira rispettando l’altro?
Ridere è
liberatorio, e il mondo ha bisogno di leggerezza, ma l’offesa nei confronti
dell’altro è il rischio che si corre facendo uso della comunicazione. Nella
natura della comunicazione stessa il pericolo dello scontro tra due soggetti è
inevitabile. Il limite della decenza, esattamente come il senso del pudore, non
sono nient’altro che convenzioni sociali, culturali, destinate a mutare nel
tempo, a smussarsi nel corso degli anni. Nel corso di questi ultimi anni
abbiamo di fatto mutato notevolmente la nostra mentalità, abbracciando una
visuale a larghe vedute.
E ora, stiamo
forse diventando indecenti?
E’ un dato di
fatto che l’essere umano non è abituato all’autocritica, ed è altrettanto un
dato di fatto che offendere, andando a colpire la zona più sensibile, il
tallone d’Achille di milioni di persone, forse è un po’ troppo.
E vogliamo parlare
della figura dell’illustratore? Fino ad un anno fa viveva immerso nella sua
nuvoletta naif, si accettava l’idea che fosse leggermente squilibrato, pigro,
se capellone, puzzolente e con la barba lunga ancora meglio. Quanti di voi
possono ammettere con certezza di non aver mai pensato alla figura
dell’illustratore come il nullafacente che viene pagato per mordicchiare una
matita e fare due scarabocchi su un foglietto?
Adesso
l’illustratore è diventato peggio di un soldato in prima linea. Pronto a tutto,
anche alla morte.
Mi sono
interrogata più volte su quale fosse una corretta reazione di fronte a frasi
del tipo “E’ colpa dei migranti! Loro ci invadono per sterminarci, e noi
accogliamo tutti. Che vergogna”. E ho dedotto che un modo giusto per reagire
non esiste. Non esiste il giusto, il sbagliato. Esiste solo la verità.
E la verità è che
un anno è passato, la satira continua, le vignette di Charlie Hebdo tornano a
far discutere, noi continuiamo a lamentarci, ad indignarci, a osannare prima
Charlie, poi il Papa, poi chissà cos’altro.
L’editoriale di
Riss apparso nell’ultimo numero di Charlie Hebdo, a un anno dalla strage, è
corrosivo, acido, tagliente, nella strenua difesa della laicità. Denuncia i
fanatici imbruttiti dal Corano, e i “culs benits” delle altre religioni, che
hanno scongiurato la morte del giornale, per aver orato ridere del religioso.
Ho deciso di riportare il termine in lingua originale, per lasciare a voi il piacere
di attribuirgli la giusta interpretazione.
Le parole di Riss
sono laceranti, a tratti volgari, e sature di dolore e rabbia.
“Non saranno
tuttavia dei piccoli coglioni incappucciati a rovinare il lavoro delle nostre
vite. Non sono loro che vedranno morire Charlie, ma sarà Charlie che vedrà
crepare loro.”
Il disegnatore
ricorda i colleghi che hanno perso la vita durante la strage, parlando di loro
come degli emarginati, ma con un talento benedetto da Dio. Eppure non credevano
in Dio, disegnavano e basta.
“Il gusto della
vita ci faceva passare l’angoscia della morte. Ma la religione non conosce
tempi, limiti, ed è tornata a colpirci ancora. La morte ha sempre fatto parte
del giornale, prima assaporavamo il gusto amaro della morte economica; ora
sentiamo l’odore acre della polvere, che contraddistingue la morte definitiva.
Tutto Charlie è morto”.
Kalashnikov in
spalla, tunica sporca di sangue, sguardo spaventato a morte. E’ un Dio barbuto
un Dio generico, di tutte le religioni, quello che appare nell’ultima
copertina, proprio ad opera del direttore del giornale, Riss. “L’assassino
corre sempre”, questo l’ultimo frammento di satira, questa l’indignazione da
parte della redazione, della Francia, del mondo intero, nei confronti di
quell’assassino, che nonostante sia trascorso un anno dalla strage, è ancora in
libertà.
Un’immagine
dinamica, una copertina graffiante, che gioca abilmente sul contrasto della
figura bianca schiacciata su uno sfondo nero, macabro, inquietante, alla “Star
wars”, come a voler ricordare al lettore che Parigi non cade, non si ferma,
continua a correre.
Ma questa non è la
sola immagine che ci porta a riflettere.
In nome di Allah
gli assassini hanno massacrato intere comunità in Africa, ucciso studenti in
un’università del Kenya, colpiscono l’India, l’Indonesia, la Birmania, la
Libia, la Tunisia. Il 10 Ottobre, poco prima di una grande manifestazione
pacifista ad Ankara, due kamikaze si fanno esplodere tra la folla. E il 13
Novembre Parigi torna a tremare.
E’ proprio in
risposta all’ultima strage parigina che Charlie Hebdo partorisce un’altra
copertina dai toni incisivi, firmata Coco. L’immagine rosso fuoco mostra un
omino con il corpo crivellato, dal quale esce a fiotti lo champagne, che si sta
bevendo allegramente. “Loro hanno le armi, si fottano, noi abbiamo lo
Champagne”, questo il titolo che accompagna l’immagine suggestiva della
copertina. Senza accorgersene i parigini sono diventati un po’ i londinesi del
1940, determinati a non cedere alla violenza, né alla paura, né alla rassegnazione.
Curioso il fatto
che la copertina esca in concomitanza con la pioggia di fuoco, i bombardamenti
intensi scatenati dalla Francia su Raqqa, come prima risposta alla strage.
Forse era meglio bombardare a colpi di Champagne.
Se al terrorismo rispondiamo
con i bombardamenti, quale sarà il prossimo passo? La bomba a idrogeno?
Ma siamo davvero
sicuri che Parigi non ha paura? Una anno è passato, i giornali continuano a
parlarne, la politica si è mobilitata, la Francia è divisa interiormente, i servizi
di sicurezza sono vigili ai massimi livelli, dappertutto si vedono poliziotti e
militari. Eppure questo non ha impedito la strage del 13 Novembre.
Paura, terrore,
confusione, polvere, distruzione.
#Je suis Charlie,
#je suis Paris. Non ci riesco. Non ci riuscivo allora e non ci riesco neanche
adesso.
E non perché io
non ami la capitale francese, la amo, eccome se l’ho amata! Ricordo l’emozione
provata non appena sfiorai il suolo parigino, già m’immaginavo a vagabondare
per le vie di Montmartre, baschetto in testa, tavolozza in mano, a distorcere
la realtà sulla carta.
Ma non sono
Parigi, perché le vittime sono ovunque. Il sangue degli innocenti non sta
macchiando solo la Francia. Ogni giorno i bombardamenti causano milioni di
morti in Siria, e in Libia, in Tunisia, in Kenya e… Ovunque.
Quindi non sono
Parigi, non sono Charlie, non sono nessuno se non me stessa.
E mi chiedo se il
mondo smetterà mai di respirare l’odore acre della polvere da sparo.
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