lunedì 23 marzo 2015

IL Volo_ L'indipendenza Da Una Terra Che Non E' Più Mia_





I pantacollant neri sono comodissimi, e adatti ad ogni situazione. Certamente si abbinano magnificamente ad un prezioso tanga sberluccicante, che è ovvio, non può mancare; e oltretutto non permette quel fastidioso effetto “da mutanda”, antiestetico disegnino, su quel mio tondo sederino.

Ma qualche volta, forse, farei meglio a pensare alla praticità, immolando il sensuale, a favore del quieto vivere.

L’orologio a muro scandiva lento lo scorrere di un tempo infinito, che pareva non passare mai. La lancetta segnava il secondo con un fare rude e dispettoso, il ticchettio mi entrava violento nella testa, fino a perforarmi il cervello.

I miei piedi strisciavano stanchi su quel pavimento scivoloso.
Le mie ballerine bianche si coloravano di polvere ad ogni passo.
l mio cervello si annebbiava ogni secondo di più.

Sentivo gli occhi dei passeggeri incollati su di me; mi stavano sbavando sul cappotto, mi urlavano in testa parole incomprensibili. I bambini indiani emanavano uno sgradevole odore di fritto, e, giocando tra di loro, mi lanciavano continuamente la palla addosso.
Ero impalata in un silenzio troppo sporco e rumoroso.

Le corde vocali fremevano nella mia gola, la voce mi frizzava dentro, il sangue scorreva lesto, trasmettendo calore in tutto il corpo, fino a rimbombarmi nel cervello. L’intero sistema nervoso era in subbuglio. Un’esplosione gigantesca avveniva internamente, provocando tutt’intorno morti e feriti, dolore e sofferenza, sangue e carne umana smembrata.

I passeggeri di quell’aereo, che ancora dovevo prendere, mi masticavano lentamente, come un filetto di tacchino ben cotto, gettando accuratamente le mie ossa nell’apposito cestino dell’umido, unito a gualche gocciolina di saliva. Perché rispettare la raccolta differenziata è d’obbligo, dobbiamo salvare il pianeta, e fagocitare un’anima alla disperata ricerca della sua identità, un’ordinaria routine.

Le ombre dei miei fantasmi mi scorrevano accanto come un film senza fine.

Un’infinita pellicola della mia vita mi inseguiva, mi perseguitava, mi rincorreva, impedendomi di unire quei due neuroni, e formulare un pensiero sensato.

Davanti a me, un omone gigantesco mi alitava in faccia, chiedendomi gentilmente di esibire il passaporto.
Una maglietta bianca era sul punto di esplodere sotto il peso di muscoli troppo pompati.
Muscoli troppo pompati soffrivano abbrustoliti dal calore di troppe lampade.

Come una fatina dalle ali fatate, sognavo di volare al di sopra di quel palloncino troppo abbronzato, per dirigermi lontano. Lontano da tutto, lontano da questa terra che mi avvolgeva troppo stretta, bloccandomi il respiro. La muscolatura dell’omone gigantesco invocava a gran voce la libertà, chiusa nella morsa di una maglietta troppo stretta; allo stesso modo, io urlavo con tutta la voce che possedevo in corpo, la mia indipendenza, nei confronti di una terra che non sentivo più mia.
Ma la realtà mi schiaffeggiava beffarda, riportandomi pesantemente a terra.
 I miei piedi, ancora strisciavano stanchi, su quel pavimento scivoloso.
Le mie ballerine bianche, ancora si coloravano di polvere.
I miei occhi s’impregnavano di lacrime.
L’ora X era scoccata.
Dovevo prendere il volo.


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