I pantacollant neri sono comodissimi, e adatti ad ogni
situazione. Certamente si abbinano magnificamente ad un prezioso tanga
sberluccicante, che è ovvio, non può mancare; e oltretutto non permette quel
fastidioso effetto “da mutanda”, antiestetico disegnino, su quel mio tondo
sederino.
Ma qualche volta, forse, farei meglio a pensare alla
praticità, immolando il sensuale, a favore del quieto vivere.
L’orologio a muro scandiva lento lo scorrere di un tempo
infinito, che pareva non passare mai. La lancetta segnava il secondo con un
fare rude e dispettoso, il ticchettio mi entrava violento nella testa, fino a
perforarmi il cervello.
I miei piedi strisciavano stanchi su quel pavimento
scivoloso.
Le mie ballerine bianche si coloravano di polvere ad ogni passo.
l mio cervello si annebbiava ogni secondo di più.
Sentivo gli occhi dei passeggeri incollati su di me; mi
stavano sbavando sul cappotto, mi urlavano in testa parole incomprensibili. I
bambini indiani emanavano uno sgradevole odore di fritto, e, giocando tra di
loro, mi lanciavano continuamente la palla addosso.
Ero impalata in un silenzio troppo sporco e rumoroso.Le corde vocali fremevano nella mia gola, la voce mi frizzava dentro, il sangue scorreva lesto, trasmettendo calore in tutto il corpo, fino a rimbombarmi nel cervello. L’intero sistema nervoso era in subbuglio. Un’esplosione gigantesca avveniva internamente, provocando tutt’intorno morti e feriti, dolore e sofferenza, sangue e carne umana smembrata.
I passeggeri di quell’aereo, che ancora dovevo prendere, mi
masticavano lentamente, come un filetto di tacchino ben cotto, gettando
accuratamente le mie ossa nell’apposito cestino dell’umido, unito a gualche
gocciolina di saliva. Perché rispettare la raccolta differenziata è d’obbligo,
dobbiamo salvare il pianeta, e fagocitare un’anima alla disperata ricerca della
sua identità, un’ordinaria routine.
Le ombre dei miei fantasmi mi scorrevano accanto come un
film senza fine.
Un’infinita pellicola della mia vita mi inseguiva, mi
perseguitava, mi rincorreva, impedendomi di unire quei due neuroni, e formulare
un pensiero sensato.
Davanti a me, un omone gigantesco mi alitava in faccia,
chiedendomi gentilmente di esibire il passaporto.
Una maglietta bianca era sul punto di esplodere sotto il
peso di muscoli troppo pompati.Muscoli troppo pompati soffrivano abbrustoliti dal calore di troppe lampade.
Come una fatina dalle ali fatate, sognavo di volare al di
sopra di quel palloncino troppo abbronzato, per dirigermi lontano. Lontano da
tutto, lontano da questa terra che mi avvolgeva troppo stretta, bloccandomi il
respiro. La muscolatura dell’omone gigantesco invocava a gran voce la libertà,
chiusa nella morsa di una maglietta troppo stretta; allo stesso modo, io urlavo
con tutta la voce che possedevo in corpo, la mia indipendenza, nei confronti di
una terra che non sentivo più mia.
Ma la realtà mi schiaffeggiava beffarda, riportandomi
pesantemente a terra.I miei piedi, ancora strisciavano stanchi, su quel pavimento scivoloso.
Le mie ballerine bianche, ancora si coloravano di polvere.
I miei occhi s’impregnavano di lacrime.
L’ora X era scoccata.
Dovevo prendere il volo.
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