_Perché Noi Siamo I Giudici Più Inflessibili Di Noi Stessi_
Dopo il Bianco E Nero, Ora, Da Me Stessa, Mi Aspetto Solo Un Caldo Tramonto.
Arriva un giorno in cui la vita ti sbatte in faccia la
realtà. E tu ti ritrovi costretta a mostrare le carte in tavola, a spogliarti
dai bei vestiti, ad accettare la cruda banalità del tuo essere, nel bene e nel
male; perché nudi come dei vermi, siamo davvero tutti uguali, e banali.
Da bambini ce lo insegnava Pinocchio, che le bugie hanno le
gambe corte, si, per diventare dei bravi ometti era doveroso dire sempre e
comunque la verità.
Ma una volta che cresci, chi viene ad insegnarti a vivere?
Chi viene ad indicarti la direzione giusta per ottenere dei risultati, e una
buona condizione della vita?
Arriva un giorno in cui Pinocchio è davvero troppo lontano
dai tuoi pensieri, e le menzogne crescono nella tua mente, intralciano il tuo
cammino, e si ribellano al tuo potere, fuggendo al tuo controllo.
Arriva il giorno in cui le bugie diventano talmente
gigantesche da farti inciampare in esse, e ti ritrovi improvvisamente a
spogliarti dal tailleur di donna per bene, e a rotolare giù, sempre più giù.
Dal castello di sabbia, alla cruda realtà.
Dal tailleur di classe, alle mutande e reggiseno della
nonna, per assicurarsi comodità e praticità.
Dalla gamba fine e depilata, alla foresta amazzonica.
Dal bel faccino truccato, all’acqua e sapone.
Arriva il giorno in cui ogni essere umano deve fare i conti
con se stesso, e non è necessariamente un giudizio universale, non è un
passaggio da vita terrena ad un’altra “superiore”, non è il confronto con un
giudice supremo, ma semplicemente con il nostro io interiore; che in fondo, è
anche il critico peggiore.
Ho passato una vita a fuggire da me stessa, correndo 25 anni
una folle corsa campestre, gareggiando con un’altra parte di me.
Ho trascorso 25 anni
in un Luna Park, a scendere e salire dalle montagne russe; volavo in alto nel
cielo, con il cuore in gola, e un’adrenalina pazzesca che mi scoppiava come
sangue nelle vene, e precipitavo a picco nel vuoto, con gli occhi sbarrati, e
pervasa da un’angoscia paralizzante.
Ho trascorso 25 anni a volteggiare nell’aria, legata ad un
seggiolino di altalena; un momento allungavo le mie stanche gambe il più
possibile, quasi a voler raggiungere l’infinito, un attimo dopo sprofondavo
nella sabbia.
Ho trascorso 25 anni legata ad un albero; trasmettevo gioia
e felicità alla gente, soltanto emanando luce e calore ad intermittenza. Ma
esprimevo me stessa, esibendomi come una modella, in tutto il mio metro e 55 di
bellezza, per un nano secondo. Poi mi spengevo, mi perdevo nel buio,
rifugiandomi negli angoli più oscuri del mio essere.
Ho trascorso 25 anni a colorarmi di bianco, rotolandomi
senza sosta nell’acrilico da parete, ma quando è arrivata l’ora di tinteggiare
le pareti della mia vita, sono inciampata nel colore nero, e lì ci sono
sprofondata.
Ora mando giù bocconi amari, strozzandomi ad ogni tentativo
di rompere quel maledetto silenzio, in quel maledetto refettorio. Un po’ per
una zucchina, che non riesce ad immettersi nel giusto canale, un po’ perché
percepisco il rumore della mia coscienza, che si dimena, urla, sovrastando la
mia stessa voce.
Pranziamo avvolte in un’atmosfera inquietante, invasa da un
silenzio surreale.
Nessuna osa staccare lo sguardo dal proprio vassoio. Solo il
miei occhi vagano, un po’ incerti, in cerca di un abbraccio.
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