E’ quando la vita scorre veloce, un giorno hai 16 anni e ti
prepari per andare alla festa; tacchi a spillo e minigonna, sei bellissima, e
invincibile. Il giorno dopo ne hai 18 e parti sgommando con la tua nuova auto
(è vecchia e quasi da rottamare, ma per te è un gioiellino); scali, tagli le
curve, sorpassi con doppia linea continua, fiera di quel foglietto
plastificato, con la tua foto, che testimonia l’idoneità a condurre il veicolo.
Il mondo è mio, niente di male potrà mai succedere; controllo
allo specchio il volto della felicità, l’occhio perfettamente truccato mi
trasforma in Cleopatra, regina d’Egitto, famme fatale. Una rapida passata di
rossetto su quelle labbra un po’ troppo spente, e rialzo lo specchietto in modo
che mi permetta di vedere chi mi sta dietro. Alle mie spalle una fila infinita
di vetture, ma dinnanzi a me non si vede nessuno. Chi mi ama mi segua, di certo
non vuol dire che sono una pessima guidatrice.
Una giovinezza spensierata, costellata da amori brevi ma
intensi, annaffiati da una bottiglia di votka e mandati alle fiamme nella
durata di una sigaretta. Quella sigaretta che è stretta tra le tue dita, resta
lì, immobile, chiusa come in una morsa tra l’indice e il medio. Di tanto in
tanto sbuffa un po’ di fumo, come quello che soffia il tuo caldo fiato in
faccia al tuo avvoltoio, e piange lacrime di cenere. Cadono a terra creando un’esile
montagna grigia, che viene calpestata dalla gente, quella stessa gente che ti è
amica, ma non sa ascoltare il tuo pianto.
Amori consumati nel tempo di una canzone, gocce di sudore
mescolate a lacrime di votka, passioni che vivono un istante, impresse nel
tessuto dei divanetti di una discoteca, e muoiono nel tempo di una sbornia.
Non sono mai riuscita a tenermi un ragazzo, mai per più di
due giorni.
Eppure la gente amica mi vede sempre uguale, sono sempre la
stessa, e a me va bene così. Sono io che scelgo il mio destino, sono più forte
di tutti, perché io non ho bisogno di amare per sentirmi viva, non ho bisogno
di una persona accanto per superare le difficoltà.
Una grande donna, si sa, deve saper stare bene da sola.
E io sono una grande donna.
Ho sempre pensato che quel vuoto, quel piccolo buco in fondo
al cuore, che a volte sanguina, e mi lacera le interiora, fosse la mancanza di
un amore.
Ma anche quando è arrivato, dal nulla, sbucando come un fungo,
apprezzando le mie qualità, le mie passioni, i miei talenti. Anche quando è arrivato lui, che mi ha fatto
sorridere, mi ha protetto, coccolato e amato. Tutto nel tempo di una sigaretta,
che si consuma da sola, che piange quelle lacrime di cenere, che ormai conosco
bene, ma che non fumo più.
Ma anche nascosto sotto quella potente ala d’amore, il vuoto
restava, ben radicato all’interno di me.
Non è questa la chiave, non è questa la via d’uscita.
Lui ci ha provato, ha fatto di tutto, ma non è lui che deve
salvarmi.
Non sono capace di amare, perché non ho mai imparato ad
amare me stessa.
A scuola quando insegnavano a “volersi bene, perché sei la
sola persona con cui passerai il resto della tua vita”, io non c’ero, ero
assente, ero al bar a giocare a risiko, a tris, o a solitario, tanto per
prepararmi psicologicamente alla mia futura “solitudine dei numeri primi”.
Perché queste sono materie che bisognerebbe insegnare nelle
scuole.
La gente dovrebbe essere informata, le malattie non sono
sempre visibili, non sempre si curano in fretta, o periscono dopo un periodo di
convalescenza. Ci sono mali che ti nascono dentro senza che tu te ne accorga, e
quando la gente amica ti osserva sorridere, osserva la ragazza di sempre,
forte, quella che niente e nessuno può distruggere, non lo sa che hai un demone
dentro, una piccola cellula infetta all’interno del cervello che ti sta lentamente lacerando.
Resta il sorriso di facciata, un automatismo, che ora rivolgo
alla mia amica Minnie; a lei che stringe tra le sue dita quella sigaretta che,
come me, si consuma piano, ritmando il tempo della mia vita, e piangendo le mie
stesse lacrime di cenere.
“Qualche volta”. La
mia mano del diavolo scrive velocemente, come risposta alla frase “penso che
andrà tutto bene”. Il questionario è compilato, firmato, archiviato, non mi
resta che aspettare. Un silenzio raggelante rimbomba nella stanza ovattata. In
quello stesso silenzio mi ritrovo a pregare che Minnie faccia qualcosa, un
cenno, un piccolo segno, per sbloccare il blocco di creta che mi ha
imprigionato, trasformandomi in parte integrante della tappezzeria.
Un piccolo sbuffo di fumo, si libera dalla bocca di rosa
della mia amica Minnie.
Come la bella statuina dell’orologio di Milano fa tic tac
riprendo a respirare, mi stiracchio, come svegliata di soprassalto da un coma
farmacologico troppo lungo e doloroso.
Riprendo a sorridere, la sigaretta è finita, il mozzicone
riposa a terra, sotto il mio piede che ha voluto spegnere quel fumo che mi
riempiva i polmoni, impedendomi di respirare.
Ora si che posso
rispondere “penso che andrà tutto bene”.
Nessun commento:
Posta un commento