Ledy era una donna piccola, minuta, secca, richiusa in se
stessa.
La incontrai una mattina, in una sala d’attesa colorata dal grigio di un intonaco scrostato,
scaldata dall’ansia dei presenti, e illuminata da una luce fioca e fredda.
Camminava lentamente, accompagnata da un omone grande e grosso, con due
occhioni blu, capaci di perforarti.
Apparentemente mi trovavo di fronte ad il gigante e la
bambina; ma il volto scavato di lei, rivelava un’esperienza e una sofferenza
diversa dal sorriso sincero e pulito del giovane accompagnatore.
Neanche avevano raggiunto la loro postazione di arrivo, che
io già la odiavo.
Le mie mani subivano passive la perfida tortura, effetto
crudele di un autolesionismo difficile da combattere; ignare vittime di quella
fame nervosa, di quel vizio maledetto, e la condanna, inflitta dai miei denti
affilati.
Mi torturavo le unghie, divorando con avidità pellicina dopo
pellicina, logorando la mia cute fino ad assaporare il gusto amaro del sangue.
Ma il mio passatempo cannibale non era abbastanza efficace, non procurava
quella giusta soddisfazione; la mia fame non si placava, l’ansia aumentava
esponenzialmente, minuto dopo minuto. Riuscivo a catturare ogni parola, ogni
sillaba, percepivo senza volere ogni inclinazione della voce di quella donna;
più tentavo di distrarmi, più quella voce mi risuonava nelle orecchie.
“Se non se ne sta zitta, tra 5 minuti esatti, giuro che
metto in atto i miei istinti omicidi”.
La mia pazienza aveva varcato ogni soglia di sopportazione.
La rabbia fermentava nelle mie vene, come una sostanza
gassosa in piena ebollizione; la collera raggiungeva il cervello, annebbiando
totalmente la mia mente.
Fu allora che tutto apparve improvvisamente chiaro. Lo
sguardo profondo e penetrante di quel ragazzo, colmo di speranza e sofferenza.
Il volto scavato di quella donna, lo sguardo perso, e l’occhio spento che
fissava tristemente la parete, assumendone lentamente il colore. La luce
presente nel corpo di Ledy, era pari all’illuminazione di quel corridoio buio e
cupo. Quel sorrisetto maligno, che mi rivolse nel momento in cui accolse le mie
povere mani martirizzate nelle sue, non mi lasciava alcun dubbio. La realtà dei
fatti mi si manifestava tristemente davanti, chiara e limpida come non mai.
Quella donna era una ladra di biciclette.
Ledy era affetta da quel virus cleptomane, maniacale, che
colpisce senza sosta le sue vittime, annientandole, giorno dopo giorno.
In questo mondo, malauguratamente, siamo in molti a venire
infettati da questo virus. Siamo molti a provare quella terribile sensazione di
possesso, nei confronti di un comune oggetto, come la biciletta. Alcuni di noi
hanno la consapevolezza della violazione del settimo comandamento; altri
sorridono beffardi, crogiolandosi nel limbo della loro infelicità.
Ledy mentiva a suo figlio, da anni, e quella mattina mentì
anche a me, lasciando un’anima persa e spaventata da sola, che niente
desiderava più di un po’ di un abbraccio sincero. Mi lasciò sola, in una stanza
cupa e vuota, un po’ come il suo cuore.
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