giovedì 26 febbraio 2015

Il Boccone Diverso_ Tante Bugie, Poche Consapevolezze_


Ledy era una donna piccola, minuta, secca, richiusa in se stessa.

La incontrai una mattina, in una sala d’attesa  colorata dal grigio di un intonaco scrostato, scaldata dall’ansia dei presenti, e illuminata da una luce fioca e fredda. Camminava lentamente, accompagnata da un omone grande e grosso, con due occhioni blu, capaci di perforarti.

Apparentemente mi trovavo di fronte ad il gigante e la bambina; ma il volto scavato di lei, rivelava un’esperienza e una sofferenza diversa dal sorriso sincero e pulito del giovane accompagnatore.

Neanche avevano raggiunto la loro postazione di arrivo, che io già la odiavo.

Le mie mani subivano passive la perfida tortura, effetto crudele di un autolesionismo difficile da combattere; ignare vittime di quella fame nervosa, di quel vizio maledetto, e la condanna, inflitta dai miei denti affilati.

Mi torturavo le unghie, divorando con avidità pellicina dopo pellicina, logorando la mia cute fino ad assaporare il gusto amaro del sangue. Ma il mio passatempo cannibale non era abbastanza efficace, non procurava quella giusta soddisfazione; la mia fame non si placava, l’ansia aumentava esponenzialmente, minuto dopo minuto. Riuscivo a catturare ogni parola, ogni sillaba, percepivo senza volere ogni inclinazione della voce di quella donna; più tentavo di distrarmi, più quella voce mi risuonava nelle orecchie.

“Se non se ne sta zitta, tra 5 minuti esatti, giuro che metto in atto i miei istinti omicidi”.

La mia pazienza aveva varcato ogni soglia di sopportazione.

La rabbia fermentava nelle mie vene, come una sostanza gassosa in piena ebollizione; la collera raggiungeva il cervello, annebbiando totalmente la mia mente.

Fu allora che tutto apparve improvvisamente chiaro. Lo sguardo profondo e penetrante di quel ragazzo, colmo di speranza e sofferenza. Il volto scavato di quella donna, lo sguardo perso, e l’occhio spento che fissava tristemente la parete, assumendone lentamente il colore. La luce presente nel corpo di Ledy, era pari all’illuminazione di quel corridoio buio e cupo. Quel sorrisetto maligno, che mi rivolse nel momento in cui accolse le mie povere mani martirizzate nelle sue, non mi lasciava alcun dubbio. La realtà dei fatti mi si manifestava tristemente davanti, chiara e limpida come non mai.

Quella donna era una ladra di biciclette.

Ledy era affetta da quel virus cleptomane, maniacale, che colpisce senza sosta le sue vittime, annientandole, giorno dopo giorno.

In questo mondo, malauguratamente, siamo in molti a venire infettati da questo virus. Siamo molti a provare quella terribile sensazione di possesso, nei confronti di un comune oggetto, come la biciletta. Alcuni di noi hanno la consapevolezza della violazione del settimo comandamento; altri sorridono beffardi, crogiolandosi nel limbo della loro infelicità.

Ledy mentiva a suo figlio, da anni, e quella mattina mentì anche a me, lasciando un’anima persa e spaventata da sola, che niente desiderava più di un po’ di un abbraccio sincero. Mi lasciò sola, in una stanza cupa e vuota, un po’ come il suo cuore.

 

 

Nessun commento:

Posta un commento