giovedì 17 settembre 2015

La banalità del male_


“L’amore è quanto c’è di più prossimo alla psicosi”.
Così diceva Gustav Jung in una delle sue lettere dedicate al maestro Sigmund Freud.
Condividere il pensiero del filosofo resta una cosa piuttosto elementare ai nostri occhi, alla luce dei fatti di cronaca dai quali siamo bombardati ogni giorno da tutti i notiziari. Fatti che vedono come protagonista una coppia d’innamorati, l’amore al centro di tutto, appunto.
L’amore acido, l’unione letale di una fragile sciroccata (così l’hanno definita), e un mantenuto sadico, è solo uno dei tanti esempi della “follie a deux”, se così vogliamo definirla.
Sto parlando di Alexander Boettcher e della studentessa bocconiana Martina Levato, sui quali pesa un’accusa di lesione gravissima ai danni di Pietro Barbini, il quale rischia di perdere un occhio, e presenta una deturpazione drammatica al viso; in seguito ad una colata di acido, gettatagli in volto dalla ragazza, ex fidanzatina del liceo.
L’aggressione sarebbe stato l’ultimo stadio di una relazione alla deriva, ossessiva, morbosa, una vendetta nei confronti dell’intruso, dimostrazione di una totale devozione da parte di Martina verso il compagno.
Le parole sottomissione, devozione, lealtà assoluta, sembrano comparire spesso, dunque, se si cerca di delineare un profilo psicologico della ragazza, ma non vi è certezza in queste affermazioni, solo leciti dubbi e questioni irrisolte, domande senza risposta insomma, in quanto solo di fronte ad una perizia psichiatrica sarà possibile avere in mano delle verità. Non vi sono dubbi nel descrivere invece Alexander Boettcher: l’ossessione, i deliri d’onnipotenza, un narcisismo portato all’estremo non possono che delineare il carattere dell’uomo che, colto con le mani nella marmellata, non tenta neanche di nascondere i suoi lati oscuri.
La relazione con numerose ragazze, che diventa ossessione di possesso, è uno di questi, il bisturi trovato nella sua abitazione, insieme a dei coltelli da combattimento, un altro.

Alcune ragazze mi chiedono di incidere le mie iniziali sul loro corpo. E’ forse un reato?”; certo che no, caro Boettcher, ma fortunatamente ancora non è una pratica di uso comune. Ma se vuole anche giocare a fare il tatuatore, chi siamo noi per impedirlo?
Non scordiamo che dall’altra parte c’è ancora Martina Levato, la studentessa bocconiana, che alla luce dei fatti appena descritti appare proprio una ragazza con gravi fragilità emotive, che ha incontrato una sera in discoteca la persona sbagliata.
Il sentiero sottile ed affilato come una lama sul quale lei ha iniziato a muovere i primi passi incerti, era dominato da un’ansia perseverante, che la seguiva costantemente insieme al desiderio di compiacere il suo Alexander The King, come si presentava su facebook. Frammenti di storia di un piccolo re narciso, che necessita d’incontrare nemici nella sua via, per poter alimentare il suo gigantesco ego, e che ha bisogno di vivere le relazioni sentimentali come una competizione, di affermarsi attraverso l’esibizionismo. Come mostrano le foto che pubblica sui social, il suo fisico muscoloso che sfoggia orgoglioso, le due ferite tatuate su entrambe le spalle, che di certo contribuiscono a renderlo ancora più macho.
La storia di un uomo piccolo, come ne esistono tanti al mondo, adorato da donne insicure, che anch’esse purtroppo spopolano sul nostro pianeta.
Ma il colpo di scena avviene qualche giorno fa, quando la “coppia dall’amore acido” si trasforma improvvisamente nel “trio dell’acido”. Entra in scena un terzo uomo, Andrea Magnani, un bancario 32enne, amico di Boettcher . Secondo le indagini il terzo incomodo è servito da chaffeur personale della bella Martina, fornitore dell’arma del delitto, insomma, di materia corrosiva ne avevano un bel po’ con loro, perché in fondo non si sa mai. Accusato di lesioni volontarie gravissime, complice di questo gioco con il fuoco messo in atto da questa coppia acida, passionale, pericolosa, che uccide, o meglio, tenta di farlo, in veste carnevalesca.
“Gli amanti diabolici a volte sono solo un delitto allo specchio, riflesso della nostra coscienza, dalla condanna a morte, anche la loro”.
Come possiamo, alla luce di questi eventi, non riportare alla mente altri due giovani amanti, complici di un’ulteriore strage, Erika e Omar? I due hanno aperto un capitolo della nostra storia, si sono amati e hanno ucciso, e uccidendo sono diventati un mito. Hanno ucciso per diventare un mito. Sentivano il bisogno di far nascere la loro coppia in maniera grandiosa, il loro amore era talmente forte da non poter rimanere inosservato. E ci sono riusciti, e hanno sofferto molto a causa di questa macchia indelebile che li ha marchiati per sempre.
Bornie e Clyde, la coppia malefica tanto amata della televisione, finisce per morire insieme, uniti fino alla fine, nel bene e, come nel loro caso, nel male; Erika e Omar terminano la loro folle corsa omicida odiandosi, e accusandosi a vicenda; la bocconiana e il broker si scambiano parole affettuose, e dalle ultime notizie pare lei porti in grembo il suo erede. Un altro uomo piccolo, ecco di cos’ha bisogno il mondo.
E’ che lo specchio a volte si rompe, a volte no.
Martina e Alexander avrebbero usato Pietro Barbini come una sorta di pedina umana, per farsi vicendevolmente del male, nei momenti critici e frustranti, nei momenti di noia, ultimi trascorsi di questa relazione malata. Malata e banale.

“L’omicidio seriale è un’azione mostruosa messa in atto da due persone, due individui distinti che trovano nell’atto assassino piacere e gratificazione, come se si trattasse di andare al cinema insieme, o a mangiare una pizza. E’ il naturale sfogo di un malessere interiore radicato nel tempo”.

Questo è l’opinione di Ruben de Luca, uno dei massimi esperti dell’omicidio seriale, perché per comprendere a fondo una questione così sottile e complicata, a me piace osservare più punti di vista.
Un’altra vicenda interessante, che mi è sembrato opportuno prendere in considerazione, è il fatto di cronaca che vede come protagonisti i due coniugi di Erba, Olindo Romano e Rosa Blazzi.
La colf e il netturbino hanno ucciso per fare un po’ di pulizia in quel palazzo tanto sporco. Al piano di sopra ce n’era proprio bisogno. Come una professionale donna delle pulizie, Rosa Blazzi, ha eliminato la polvere da quella casa, perché anche il chiasso, gli schiamazzi, i rumori, i pianti continui di quel bambino, il piccolo yussef, possono essere considerati sporco da eliminare. Questa volta, per compiere il suo lavoro alla perfezione com’era solita fare, ha utilizzato un coltello, accompagnata dal marito armato di un martinetto.
Perché noi abbiamo il brutto vizio di dimenticare questi fatti, tristi vicende accadute anni fa, tristi e drammatici, perché si sa, il tempo è il peggior nemico della memoria umana, ma è interessante a volte mandare indietro le lancette dell’orologio per comprendere come la storia si ripeta continuamente, i coltelli continuino ad uccidere, il male continui a manifestarsi ad esplodere nella sua assoluta banalità.
Si, banalità, perché  in questo caso il male non è radicale, non possiede radici profonde e non è grandioso, proprio come non sono grandiosi, malvagi, meno che mai satanici, i protagonisti di tale male.
Riprendo una lettura a me cara, della filosofa Hannah Arendt, che interrogandosi sul “problema” dell’Olocausto, si ritrova ad analizzare la figura di Eichman, uno dei nazisti protagonisti dello sterminio di massa. La filosofa vede in Eichman semplicemente un piccolo borghese, preoccupato per la sua carriera, un amorevole padre di famiglia, né troppo cattivo, né troppo stupido. L’uomo ha obbedito al treno della storia, diventando un volenteroso carnefice, solo perché la storia portava da quella parte, e lui, essendo un cittadino modello, non può far altro che obbedire ai suoi superiori.
Si può riscontrare in tutto ciò una grigia e banale obbedienza, e se Auschwitz è stato il periodo più buio della storia occidentale è solo perché la società era popolata da persone banali, senza spina dorsale, che hanno unicamente obbedito ad agenti dello sterminio.
Il vero pericolo sarebbe dunque identificabile non nel mostro, il Diavolo satanico con gli occhi di fuoco e due corna sulla testa pronte ad infilzare il nemico, ma proprio nei grigi e banali esecutori, deboli, amanti di se stessi, incapaci di pensare, incapaci di giudicarsi.
Secondo Hanna Arendt il male non è radicale ma estremo, non possiede profondità né spessore demoniaco, ma è altrettanto tremendo.
Tremendo e banale, banale e malato.
E niente di più del banale ritroviamo nel male dei due coniugi di Erba, niente di più banale lo riscontriamo in una studentessa bocconiana che si trasforma improvvisamente in una carnefice, pronta a sfigurare belle facce con l’acido corrosivo.
Per amore di un uomo?

E’ l’amore la causa di tutto questa banalità del male?
“L’amore è quanto c’è di più prossimo alla psicosi”, questo diceva Gustav Jung, maestro della psicologia del profondo negli anni della nascita della psicanalisi freudiana.
“Il male non è radicale ma estremo, ed estremo nella sua banalità”, questo diceva Hannah Arendt negli anni immediatamente successivi all’Olocausto.
Momenti lontani, eppure non troppo lontani da non essere chiamati in appello, nel continuo tentativo di dare una risposta a quello che succede nel mondo.
E se la storia pare ripetersi nel nostro presente, cosa dobbiamo attenderci nel nostro futuro?

 

 

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